Serie D – Latte Dolce tra gruppo e difesa: coperta corta, ma le soluzioni non mancano
SPEDICATI, PROPRIO LUI
di Laura Fois
LA VOCE DEI SIKITIKIS:«ANARCHICO È CHI DECIDE DI AMARE DAVVERO»
Nella sua carta di identità la sua professione è “artista”, lo stato civile “libero”.
Sono sicuramente i due tratti che più caratterizzano Alessandro Spedicati, che ha rilasciato per City&City un’intervista intima e pop. Reduce da un’estate prolifica caratterizzata da più di venti date in Sardegna con la band di cui è vocalist dal 2000, i Sikitikis, lo incontriamo in “un periodo in cui non riesco a tirar troppo le somme, perché quando finisce un periodo di attività musicale così potente mi lascia un vuoto enorme”. C’è vita dopo i concerti? “Provo una sorta di horror vacui ogni volta che si chiude il sipario del tour. Non c’è niente di più figo di stare sul palco a suonare ma quando smetti ti manca da morire e sembra che quasi tutto quello che fai dopo è inutile. Per un musicista da una parte c’è il lavoro in studio, per cui vado matto, e dall’altra il rapporto col pubblico, che definisco come la differenza tra una storia di sesso occasionale e una storia d’amore duratura e costruttiva. Sono arrivato alla conclusione che bisognerebbe anche dimenticarsi di avere un pubblico perché non lo si possiede.”
Il meccanismo del tour è anche logorante, bisogna imparare a proteggersi.
“Cambio completamente il sistema di vita. Ho notato che mangio a casa solo quattro mesi all’anno! Non posso non nascondere però che tutto questo abbia anche strumenti rigenerativi.” Può fare a meno della musica un musicista? Ed è vero che i Sikitikis cantano anche “storie per scappare dall’amore”, come dice un verso della canzone Abbiamo perso, il cui disco omonimo è uscito nel 2015? “Sì, sostanzialmente ci inventiamo cazzate. Credo che la nostra società abbia equivocato moltissimo il concetto di amore, scambiando altre cose che non lo sono, per amore. Per la maggior parte di noi sia il sesso sia la condivisione di spazi della vita con la persona del sesso preferito è un fine. In verità a me sembra che sia tutto un mezzo e che il fine sia qualcosa che non conosciamo e non riusciamo a vedere.
La mia idea è che scappiamo dall’amore per sfuggire dal reale. C’è un’altra canzone, Soli, che per me è una preghiera verso l’amore condiviso, cioè una condivisone di una presenza che ci deve aiutare a scoprire davvero dove stiamo andando. Il dialogo in amore lo considero una delle cose più sopravvalutate che esistano. Tutto ciò che mettiamo nel lavoro non dovremmo metterlo nell’amore e viceversa. L’amore è un compromesso nell’equivoco che viviamo, altrimenti non lo è, o ami o non ami”. Segue una breve pausa. “Ovviamente non ci ho capito una mazza! Se la musica mi avesse aiutato a capire qualcosa dell’amore, probabilmente ora farei un altro mestiere”. Si scoppia a ridere. La maturità di un musicista si scopre anche nei momenti interiori che si decide di esternare, estremamente lucidi e caratterizzati da una raffinata leggerezza e un umorismo contagiosi.
“Il nome Sikitikis?
Un nome di merda”, dopo che l’autrice dell’intervista pensava che fosse una trovata geniale, “per noi è stato un grosso limite non averlo cambiato all’inizio, invece era necessario per far un salto di qualità nel mondo del pop. Il nome è fondamentale e non è un caso che le cose più fighe che siano uscite nel mondo del pop indipendente è Calcutta, perché è un nome conosciuto, rimanda a molti concetti e luoghi noti. I Sikitikis hanno avuto ad un certo punto l’incoscienza di voler andare avanti con quel nome.
È vero che al giorno d’oggi con la comunicazione puoi fare tanto, ma è vero altrettanto che ogni discografico ha storto il naso considerando il nome Sikitikis.” Certo, il settore musicale ha attraversato una grande crisi e forse anche il meccanismo della produzione discografica si è dimostrato impreparato ad attutire il colpo generato da Napster, My Space e compagnia cantante. “Pensate che la Sony italiana, la major più importante, nel 2004 aveva sede a Milano in un palazzo di dieci piani, adesso gli son rimasti due piani e quattordici dipendenti. Per dovere di cronaca bisogna dire che il mercato discografico è crollato in Italia più che in altri posti, mentre in America fa il 10% del PIL e in Francia non ha mai avuto una flessione, questo perché son stati presi subito provvedimenti, anche a livello legislativo.
Penso che la musica debba essere considerata un’industria culturale. Gli anni ’80 hanno fatto un po’ di danni, si è pensato di essere onnipotenti, poi il cambiamento dei cinque giga ha sconvolto tutto”. Ciò non ha comunque ostacolato il processo di creazione musicale e la fruizione di ottima musica. L’incontro decisivo Alessandro Spedicati l’ha avuto con i Subsonica, e non solo per lui “son stati il gruppo italiano più importante degli ultimi trent’anni. Massimiliano Casacci, produttore e chitarrista della band, è stata la persona più importante della mia vita in termini artistici e umani.
Per molti anni sono stati la mia unica famiglia, vivevo nella loro stessa città, Torino, ed erano le persone con cui passavo il Natale. Ho lavorato e scritto con loro, è stato un periodo incredibile, quello dal 2004 al 2009, anche se il nostro rapporto inizia prima. È stata l’esperienza principale della mia vita, estremamente intensa, quasi circondata dall’aurea del sogno. Dal punto di vista umano, ho capito quanto sia importante stare con persone che fanno il tuo stesso lavoro perché hai l’illusione di essere compreso e capito, di non sentirti solo in quel pianeta che nutre se stessi chiamato musica”.
Oggi molti talent show e programmati TV sono dedicati alla musica. L’entrata in scena di Manuel Agnelli, uno dei massimi rappresentanti del mondo della musica indipendente, come giudice di X-Factor, ha fatto discutere. Per Spedicati il leader degli Afterhours “ha fatto benissimo ad accettare di far parte della trasmissione. Sono convinto che mostrerà anche ai più scettici che non solo ci sta a far qualcosa ma che dirà e dimostrerà qualcosa in più. Un uomo che ha iniziato come tutti quelli della sua generazione, raccogliendo molto meno di quanto ha seminato, si trova a cinquant’anni a poter capitalizzare la sua esperienza, sta dimostrando che crearsi una sua credibilità paga. È solo questione di tempo. Non dobbiamo avere la pretesa di cambiare le cose, non possiamo condannare uno show televisivo, perché gli stiamo dando troppa importanza. Stiamo anche dando un valore troppo elevato ai soldi. Davvero dobbiamo pensare che una persona come lui si sia venduta al sistema? Allora non abbiamo neanche capito cosa sia il denaro”.
Cosa succede invece in Sardegna? “C’è un’ondata di autori sardi che cantano folk americano, bravi sia cantare sia a scrivere. Posso dire, da una parte, che ci sono cose interessanti artisticamente ma non so fino a che punto commercialmente. Dall’altra, riscontro che in Sardegna si produce davvero tanta musica, spesso all’avanguardia. Abbiamo ottimi produttori di musica elettronica, mentre stanno cominciando a venir meno le band, ma credo sia una questione culturale. Prima, quando ero ragazzino, non ti facevano entrare in discoteca e spesso finivi nelle sale prove. Queste erano davvero il filtro in cui si fermavano gli sfigati! Le donne non ci filavano, non avevamo i soldi per pagarci il motorino, fortunatamente avevamo gli strumenti musicali.
Oggi i ragazzi che vogliono fare musica comprano un software e si rinchiudono in casa con gli amici. La musica si fa coi tablet, quindi è più roba da nerd, però si fa comunque. È un periodo di flessione in termini di spazi, concerti, adesso la moda è l’hamburger gourmet, andar a mangiare fuori, cosa che noi non potevamo permetterci”. Così cambia la musica, la moda, le icone, così vede un’artista del suo tempo il mondo fuori e ciò che lo circonda.