Tempio Pausania – Al Teatro del Carmine Jashgawronsky Brothers in ToyBoys
Sassari Mon Amour
di Lalla Careddu
Angelo Maggi in mostra all’ex Covento Carmelo e alla Sala Duce di Palazzo Ducale
Moltissimi anni fa per arrotondare un magro stipendio facevo la dattilografa. Battevo a macchina migliaia di fogli su commissione, di cui non mi ricordo praticamente nulla. Solo un verso mi è rimasto impresso, era il verso di una poetessa che mi portava le sue poesie su fogli di quaderno strappati che dovevo riportare dattiloscritte. Il verso era un pur duro febbraio è vinto, ormai e mi viene in mente con prepotenza in questo piovoso, freddo e buio pomeriggio di, appunto, febbraio. È vinto quando entri nell’atelier di Maggi, e non è una questione di qualche fonte di luce o di calore, ma di colore. Il rosso degli sfondi e quei volti piccoli, grandi o gradissimi ti accolgono con morbidezza. Poi vengono gli occhi di Angelo Maggi, mobilissimi, nascosti inutilmente da un reticolo di rughe di chi ha sorriso molto nella vita. Sono occhi da folletto, che non ti aspetti.
Maggi, queste opere a cui sta lavorando sono davvero grandi
«Le faccio grandi perché stanno nel furgone (ride). A parte gli scherzi mi piace il grande formato, ora che sono più adulto, più maturo, mi sento pronto per osare. Le farei anche più grandi, ho voglia di cimentarmi. Per questo motivo qualcuno ha detto che non sono un vero pittore, ma un illustratore, un grafico pubblicitario. Non mi sono mai definito, non mi interessano le definizioni. Questo è il lavoro che amo, per cui ho rinunciato anche alla sicurezza di una cattedra ottenuta da vincitore di concorso. È una scelta che rifarei».
Durante tutto il nostro incontro più volte usa la parola osare. Ne ricavo l’impressione che la maturità gli abbia regalato più libertà. Muove le mani verso l’alto, parlando della città che ama, Sassari. In ogni sua intervista lei ha sempre sostenuto che uno dei desideri più grandi era fare una mostra in un grande spazio sassarese.
Questo sogno sta per diventare realtà, finalmente?
«Sì, a maggio faro una grande mostra al Carmelo e uno nella sala Duce del comune. Io amo questa città. È qua, in Via Carmelo, che ho cominciato a esporre i miei quadri, è qua che i sassaresi hanno acquistato le mie opere e mi hanno fatto diventare quel che sono. Certo vado in giro per l’Europa, la Francia mi ama, mie opere sono in tutto il mondo, fino a Salt Lake City. Ma amo Sassari, anche se la vedo dimessa, più brutta. I cavi sui bei palazzi, i colori di Genova che son stati dimenticati. Potrebbe diventare una città da fotografare, se solo la amassimo un po’ di più. Una volta volevo dipingere le finestre di un palazzo abbandonato, ma non se ne fece niente».
Sorride, ma non sta scherzando affatto. Se gli consegnassimo le chiavi della città sarebbe capace di salire su una gru e colorare la città. Opere grandi, opere da osare.
Lei ama Sassari, Sassari la ricambia?
«Ho sempre goduto della stima e dell’amicizia di molti. Il mio atelier è frequentato, ho molti amici qua. Mi piace circondarmi di persone, mi piace che facciano amicizia fra loro. Sono un catalizzatore di relazioni e questo mi fa un enorme piacere. Ho avuto solo un grande dispiacere, e l’ho avuto in occasione della fontana che progettai per la piazza di Via Brigata Sassari. Me la commissionarono dopo il successo di un modello realizzato per una “Notte bianca”. Accettai, come ho sempre accettato quando la città mi ha chiamato. Fui bersagliato da molte cattiverie e menzogne. Non attaccarono il mio lavoro, le critiche per chi fa arte sono salutari e sono ben lieto di leggerle. Mi calunniarono per un motivo economico inesistente. Dissero che ero troppo vicino ai politici, che l’Amministrazione aveva speso una cifra esorbitante (si favoleggiò addirittura di cifre superiori a duecentomila euro). Eppure le cifre erano negli atti ufficiali, era una cifra bassissima, avrei guadagnato di più a vendere un quadro. Quella menzogna mi diede dolore, ma non replicai mai, non entrai in polemica. La verità è nelle carte, e non spetta a me dirla: è a disposizione di tutti».
Il rosso delle sue opere pervade tutto lo spazio, è un rosso che stranamente non è carnale ma caldo e accogliente: anche la tisana che mi offre è rossa, calda.
Il rosso per un pittore è una sfida – mi dice – è un colore potente, ma difficile da gestire. Agli inizi usavo il grigio, il rosso è arrivato dopo. Le sue donne oggi campeggiano su tessuti, borse, piccoli gioielli.
Che effetto le fa vedere le sue borse appese al braccio di donne che fanno la spesa?
«L’idea mi venne quando una mia amica di Salt Lake City mi fece notare che non producevo nulla all’infuori dei quadri: chi voleva spendere poco non poteva avere una stampa, una cartolina, qualcosa da portar via. Fu questo a spingermi alle mattonelline da appendere a un nastro, alle borse, fino ai tessuti che Tore Oppes ha fatto sfilare. La moda addosso è un’idea che mi piace, e piace molto anche alle mie clienti».
I suoi quadri sono stati venduti in Italia, in Europa, sino agli Stati Uniti. A chi non venderebbe mai un suo quadro? In quale casa non vorrebbe che entrasse un’opera di Maggi?
Questa domanda lo lascia interdetto: è come se il concetto di inimicizia, di rancore fossero concetti alieni che lui non sa proprio maneggiare.
«Non mi viene in mente nessuno cui non darei una mia opera. Anzi, dirò di più. Se una persona non avesse verso di me sentimenti di amicizia io vorrei che un mio quadro lo avesse. Sarebbe un segno di accettazione, di perdono. Perdiamo troppo tempo ad odiarci, e io no, non odio e non ho inimicizia per nessuno. Per nessuno».
Quando vado via, sotto la pioggia, mi rimane in gola una domanda che avrei voluto fargli, volevo chiedergli se fosse felice. Una domanda inutile, sciocca, inconsistente. Perché Angelo Maggi la costruisce la felicità, la dipinge, la crea. La felicità l’ho vista nelle mani che accarezzavano i quadri, l’h’o vista quando parlava di progetti futuri, quando rideva di sé e delle meschinità che a volte, raramente, gli son state rivolte. Sarebbe stata la domanda che il suonatore Jones di De André rivolge al mercante di liquori:
tu che lo vendi, cosa ti compri di migliore?