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Sassari – C’era una volta il quartiere di Montelepre
Erano gli anni del bandito Giuliano Re di Montelepre, piccolo comune del palermitano e il nome ebbe immediata fortuna
Montelepre nasce come quartiere nell’immediato secondo dopoguerra in un campo militare ormai in disuso. In breve tempo gli spazi vengono in un primo momento occupati da reduci di guerra senza famiglia e senza fissa dimora, povera gente, emarginati e da qualche famiglia di zingari integrati molto bene. Ma solo nel 1953 dopo la grande alluvione a Sassari, molte famiglie che occupavano la scuola di San Donato, vennero trasferite in quel grande spazio (circa 70 mila metri quadrati) che più avanti avrebbe preso il nome di “Montelepre” in riferimento al bandito Giuliano. Il quartiere che nasceva di fronte all’attuale stazione dei Carabinieri, era composto da circa 15 o 16 capannoni, più due grosse palazzine dove una fungeva da scuola e un’ala da ambulatorio medico, e l’altra la cosiddetta “palazzina comando”.
Vi risiedeva varia umanità, il tutto cinto da un muro alto almeno tre metri che lo divideva dal resto della città. Nonostante il grosso sovraffollamento di persone e i vari disagi, all’interno del quartiere si conduceva una vita dignitosa e indipendente dal resto della città, in quanto zona fornita di tutti i servizi di prima necessità. I vari negozi posti all’interno – bar, tabacchi, alimentari, bombolai, verdurai ecc. – facevano sì che Montelepre fosse considerata una cittadina a sé stante. Oltre questi negozi era presente anche un cinema, un oratorio e un doposcuola dove trascorrere le serate, nonché una chiesetta.
Protagonista delle vicende degli abitanti del quartiere era anche il postino. Questi veniva visto un po’ come fosse un messia, in quanto era colui che portava le lettere di speranza per l’assegnazione delle case popolari, aspettate con trepidazione dagli abitanti che si trovavano lì in via provvisoria. Non essendoci vie, la posta inizialmente riportava su scritte le caratteristiche del capannone, come il primo vecchio o il primo nuovo ed era usanza chiamare le vie con i soprannomi di chi le abitava.
Riguardo i capannoni, nonostante non ci fosse l’acqua al loro interno, (l’acqua era presente solo all’interno della scuola), il comune fece installare delle fontanelle poste tra un capannone e l’altro in modo che i disagi venissero meno e che gli abitanti di Montelepre potessero usufruirne per lavarsi e per lavare panni e per i servizi di prima necessità. Vigevano delle leggi non scritte e tra gli abitanti dentro le mura c’era un codice etico e tanta solidarietà. Nel 1972 dei volontari venuti da Milano stimarono tramite un’indagine statistica, che dei 1453 abitanti quasi il 57% erano bambini e ragazzi al di sotto dei 18 anni di età.
Al limite del quartiere, nella zona di Rizzeddu dove c’era il manicomio, erano presenti anche le scuole elementari. Qui capitava di avere giornate bizzarre in cui i bambini si trovavano ad assistere a tentativi di fuga da parte dei pazienti dell’ospedale psichiatrico, e a tifare per loro che cercavano di scappare via dagli infermieri che li rincorrevano cercando di ricondurli nella struttura.
Nonostante la povertà ed emarginazione del quartiere, quello che si respirava era in gran parte un clima di unione, tolleranza e condivisione. Chi poteva aiutava i più bisognosi donando loro del cibo, mentre ai bambini, se un loro coetaneo fosse portatore di disabilità o vivesse in condizioni di maggior povertà, non interessava; tutti giocavano e si divertivano allegramente insieme, senza badare ad apparenze o condizioni. Solidarietà e sorrisi erano le migliori armi con cui affrontare le situazioni dure e fronteggiare una vita già di per sé ricca di problemi, che solo una risata o un gesto gentile avrebbero potuto alleviare.
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