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Roberto Ziranu, il fabbro di Orani che ha dato anima al ferro
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Proviene da una realtà dove il mestiere dell’artigiano è una questione di famiglia: fabbri da cinque generazioni. Dalla lavorazione del ferro, grigio e monotono, riesce a far emergere un mondo di colori e vividi riflessi. Così la lastra diventa della stessa tonalità dell’oro oppure assume una colorazione blu o viola sprigionando quella luce che le sue opere emanano
Gli inizi.
Appena ventunenne, Roberto Ziranu aprì la sua prima bottega personale prendendo le distanze da quella del padre. Già allora sentiva la necessità di distinguere il suo lavoro da quello degli altri colleghi e lo faceva punzonando le sue opere con la sigla “RZR” (Roberto Ziranu Roberto). La ripetizione del nome come rafforzativo che esprime una volontà di emergere dal suo paese di origine, Orani, puntando sulla propria identità.
Forse potevo sembrare il meno adatto a fare questo lavoro – si racconta Roberto Ziranu –ma già da ragazzino facevo cose estrose: a 18 anni creavo dei manichini in ferro per mantenermi durante gli studi. Poi a vent’anni lasciai l’università perché avevo deciso di voler fare il fabbro.
Da fabbro a scultore.
Ho iniziato a fare le prime mostre quando tutti pensavano che stessi perdendo tempo. Ma partecipare ad una mostra significa far sentire la tua esistenza: tu ci sei e fai vedere che cosa fai. La mia prima mostra è stata la Biennale dell’artigianato sardo di Sassari. Erano gli anni 90 ed ero uno degli artigiani più giovani. Da lì poi ho proiettato la mia arte fuori dalla Sardegna partecipando prima a quelle esclusivamente fabbrili dove venivano artigiani da tutto il mondo. Il mio prodotto da semplice artigianato è diventato una scultura, un elemento d’arredo che è sempre frutto di un lavoro e di anni di esperienza. Ma la cosa più bella è rimanere sé stessi! Quando a 40anni ho trasferito la mia bottega da Orani a Nuoro, c’era una parte di me che pur avendo tutto non era felice… c’era qualcosa che ancora dovevo tirare fuori ma non sapevo cosa fosse.
Ed è così che nel periodo compreso fra il 2004 e il 2008 c’è stata l’esigenza di una intensa sperimentazione. Sono questi gli anni della profonda ricerca di un “qualcosa” che alla fine è stata anche una ricerca di sé stesso. Inizialmente ha provato con gli ossidi ma il ferro non reagiva. Poi, nel 2008 vede la luce la sua prima opera: la zattera. Dedicata alle vittime e agli sfollati dell’alluvione di Capoterra e Frutti D’Oro. Simboleggiava un messaggio di speranza a cui aggrapparsi all’ultima per non lasciarsi andare nell’abisso.
Nel 2010 ci furono i primi quadri: graffiando le lastre di ferro, Roberto ha disegnato città immaginarie e ritratti di personaggi che hanno fatto grande l’Italia, come quello di Margherita Hack che ha portato in mostra a Milano. L’anno successivo, la primissima mostra personale a Cagliari.
Questa mostra è stato l’inizio che mi ha permesso di uscire, perché bisogna… uscire!
Il segreto del successo.
Bisogna uscire – Roberto lo ripete più volte – come fece Costantino Nivola: il fatto di aver avuto l’impulso e di essere andato oltre la Sardegna e l’Europa, gli ha permesso di crescere artisticamente ed essere riconosciuto anche oltreoceano. Una persona di spiccata intelligenza che già negli anni 50 aveva una visione già molto all’avanguardia… basti pensare alla Pergola: il paesino bianco con lo zoccolo blu e il pergolato verde sopra. Credo che se fosse rimasto in Sardegna non sarebbe stato apprezzato come era giusto che fosse.
Sono orgogliosamente oranese, ma nonostante l’attaccamento e la gratitudine verso la mia terra d’origine, come artista, restare chiuso in un ambiente circoscritto significa auto-limitarsi. Il segreto è credere fortemente in sé stessi e avere coraggio e volontà.
Senza il coraggio e la volontà di mettersi in gioco, Roberto probabilmente non avrebbe mai aperto la propria bottega personale a soli 21 anni. Dopo aver avuto tante soddisfazioni fra apparizioni televisive, varie pubblicazioni su riviste nazionali e viaggi per l’Italia, alla fine si è presentata una sensazione di insoddisfazione quasi opprimente.
Avevo raggiunto grandi traguardi ma c’era una parte di me che non era completamente soddisfatta. Avevo l’impressione che il ferro mi potesse dare qualcosa di più e non il semplice cancello, non la solita ringhiera o un letto per arredare qualche bella villa. C’era qualcosa di più profondo che mi mancava e pensavo che il ferro potesse avere un lato nascosto che dovevo tirare fuori, come se dovessi portarlo a nudo, spogliarlo. Oggi posso dire che ha un’anima, ha dei colori e che ne ho acquisito la padronanza: siamo come un’unica cosa.
La sensazione di sentirsi un tutt’uno col ferro, quasi come a identificarsi in questo materiale, per Roberto è la linea di congiunzione fra l’arte e l’artigianato puro e semplice.
Essere fabbro significa essere ovviamente un artigiano, mio nonno lo era, mio padre anche, e io continuo la tradizione di famiglia. L’artigiano è colui che entra in punta di piedi in una casa, a cui si commissiona un lavoro con fiducia. È vero che si seguono delle direttive imposte dall’architetto, dal geometra o dal designer. Ma chi è capace di creare, lo fa anche senza indicazioni fornite da queste figure professionali: un artigiano deve avere anima, gusto e talento e va rispettato.
Mi chiamano artista o artigiano-artista? Non mi interessano queste etichette: sono un fabbro, uno scultore e un creativo. Essere considerato artista non mi dà niente di più, anzi quasi mi toglie perché oggi tutti vogliono esser considerati artisti. Ma dal lato pratico, tra essere un artista o un artigiano non intercorrono grosse differenze. Si dice che esiste un filo sottile che scinde le due cose, ma io lo rifiuto: questo separazione non lo voglio. Per me non voglio etichette.
Roberto si sente un “creatore” nel senso più pratico del termine, ossia come “persona che crea”. Non è certamente possibile che tutti apprezzino le sue opere, ma sostiene convintamente che il bello è anche non essere amato e capito da tutti perché in quel caso le sue opere rischierebbero di diventare un prodotto standardizzato. E se – provocatoriamente chiediamo – il pubblico dicesse che la tua creazione è solo un pezzo di ferro?
Giustissimo! Ma io dentro quel pezzo di ferro ci ho messo una parte di me: lavoro, pensiero, fatica e sudore. E non creo perché devo finalizzare una vendita ma lo faccio perché è un bisogno intrinseco.
Ed è questa la soddisfazione più grande per lui: chi va a cercare una sua opera è perché sente qualcosa, trasmette qualcosa. Creare un’opera è avere la capacità di comunicare emozioni e sensazioni, e Roberto lo fa attraverso il ferro, lavorando a circa mille gradi, graffiando le superfici ferrose delle lastre che reagiscono al calore: da qui nascono i colori.
Io dipingo senza pittura. Mi ricordo che alla biennale di Asolo hanno dovuto cambiare regolamento per poter accogliere una mia opera nella sezione pittura aggiungendo una tecnica chiamata “fiamma su lastra”. E quando Vittorio Sgarbi mi detto che le mie opere posso benissimo non firmarle perché tanto si riconoscono benissimo senza, vuol dire che sto facendo qualcosa di originale, di unico. Mi piace raccontare quello che faccio, sono consapevole di cosa faccio e credo di aver dato qualcosa di nuovo all’arte del ferro.
La consapevolezza di essere uscito dagli schemi dell’artigianato metallurgico classico e dagli insegnamenti impartitigli dal padre, permea il modo di pensare di questo fabbro contemporaneo. E sottolinea come tutto ciò non sarebbe stato possibile se non avesse avuto l’esperienza di essere cresciuto nella bottega di famiglia.
Non lo nego, sono orgoglioso del fatto che, per esempio, le mie vele si trovino in tutto il mondo. Mi piace ricordare di essere figlio di un fabbro e da dove sono partito: è ciò che mi dà stimolo a fare sempre meglio, perché ho ancora tanto da dare.
Per Roberto non si tratta di lavoro ma lo vive come una conseguenza naturale della sua vita perché è fiero sostenitore che fare ciò che si ama sia vivere la vita.
È difficile da spiegare… quando ammiro un’opera finita è una sensazione indescrivibile. Una giornalista l’ha chiamata “l’Anima Fluida del ferro” e secondo me è una definizione azzeccata. Dare anima al ferro significa che trasmetto in questo materiale ciò che provo, le mie emozioni, e chi lo guarda riesce a vederle. Mi rendo conto che sto imprimendo le mie emozioni in una semplice lastra e che resteranno bloccate nella metallo, fissate nell’attimo stesso in cui sto producendo. E quell’attimo non morirà mai. Il ferro è povero e grigio ma però mi dona tanto, perché riesco a far emanare una luce. E io vivo di quella luce – che quasi respiro – e voglio che arrivi anche agli altri. Questa è decisamente la cosa più bella! Pensare di riuscire a trasmettere le emozioni che provi è il mio obiettivo, il mio piacere e così mi sembra quasi di volerlo celebrare e rendere grazie. L’anima fluida del ferro è questa, un’opera che vivrà per sempre, rendendo immortali le emozioni.
Le emozioni, i sentimenti, tutto ciò che l’uomo può provare, sono il vero motore che spingono Ziranu a continuare a creare.
Mi ricordo tutte le mie opere come se le avessi fatte ieri. Come un pastore col suo gregge di pecore: sembrano tutte uguali e invece lui le riconosce una per una. Ciascuno riconosce sempre le proprie creature.
Ma come per tutti i professionisti del mondo dell’arte e dell’artigianato, il periodo della quarantena da Covid-19 è stato un flagello che si è abbattuto all’improvviso e senza scampo per nessuno. Un evento che ha colpito non solo l’economia ma l’esistenza di tutti. Così, la luce che ha sempre guidato il suo pensiero, la sua mano e il suo cannello si è affievolito e per un periodo che è sembrato lungo come un’eternità non è riuscito a creare nulla.
Credo che sia stato fra i periodi più bui, non solo per me ma per tutti noi, e ha portato enormi cambiamenti. Mi viene in mente la mostra ad Assisi, la più bella perché è venuta gente da tutto il mondo. Lì ho presentato il mio libro “Anima ferrosa”. Non è stata solo una mostra: la considero un viaggio! Ecco, il covid ha modificato il mio viaggio, il mio percorso, l’incontro e il modo di crescere. E ancora non ne siamo usciti. Sono stati due anni intensi che mi hanno segnato e insegnato molto. Tutto questo dolore mi è servito per fare un’ introspezione alla ricerca di una identità personale: chi sono realmente io, chi è Roberto Ziranu? La pandemia mi ha dato la possibilità di conoscere un Roberto diverso, un Roberto umano.
Per più di un anno non ha creato nulla. Ogni giorno si recava nella sua bottega, accendeva la fiamma del cannello, attendeva… e poi la spegneva. Una scena che si è ripetuta per mesi e mesi. Finché un giorno ha chiesto al figlio Angelo di raggiungerlo in bottega e lì accadde qualcosa.
In un disco ho disegnato me stesso rappresentato da un punto color blu profondo come l’abisso in cui ero sprofondato, dove ti perdi e non sai dove sei finito e tutto quello che hai fatto non c’è più e il tutto ti annienta. Ed è qui che il blu diventa nero. E mi chiedevo: come posso dare anima ad un’opera se l’anima manca per primo a me stesso? Però poi ho alzato la testa e ho visto una luce infinita. Ho realizzato che ho due figli adorabili, Angelo ed Elisa, le due sculture più belle che abbia mai fatto, da dove traggo la luce, una nuova compagna, tanti amici e molto amore attorno a me… allora è stato naturale fare il resto del piatto color oro, come la luce. E questa luce sovrasta il blu dell’abisso. Si può toccare il fondo e va bene ma bisogna scegliere se restare lì sotto o guardare verso l’alto e rendersi conto che oltre c’è tanto altro, c’è ancora tanta luce e un’immensità che ti aspetta.
Quel giorno ha “tirato fuori” tre dei suoi migliori piatti. Così ha inizio la sua ripartenza. Una ripartenza molto faticosa, sfociata nella mostra “l’Età del Ferro” alla Galleria Siotto di Cagliari curata dalla critica d’arte Alessandra Menesini.
E ora interpreto quel blu come il mio viaggio personale e non più come una profondità
Non ha ancora programmato nessuna mostra imminente ma c’è la sua monografia scritta dalla giornalista Alessandra Ghiani. Un libro tanto desiderato che racconta la sua vita e il suo percorso artistico, una raccolta di 52anni di vita. Il libro è stato anche tradotto in inglese, patrocinato dal Comune di Orani e dal Comune di Assisi. Fondamentale per la sua realizzazione è stato il contributo della Fondazione di Sardegna e della FASI (Federazioni delle Associazioni Sarde).
L’origine dei pezzi iconici.
La vela è un simbolo universale che non ha bisogno di molte spiegazioni, mentre in molti non hanno mai visto su cambale e non sanno neppure cosa sia, soprattutto nel Nord Italia. Invece per i sardi è quasi identificativo, non deve essere spiegato, intrinsecamente conoscono il significato dell’opera.
Quando vai fuori dai confini dell’isola, è molto più probabile che un simbolo identitario venga travisato. Per esempio, il corpetto è stato interpretato come un’opera sexy.
Il cambale – Questo pezzo ha una storia tutta sua:
Quando avevo 7/8 anni a Orani, fuori dalla bottega di mio padre, vedevo questo tziu. Lui passava ancora col carro tirato dai buoi… è come se ce l’avessi fotografato nella mia mente! E poi vedevo anche un mio zio, sposato con la sorella di papà. Entrambi si avvolgevano i piedi con delle tele.
Roberto, non avendo familiarità col mondo agropastorale, era rimasto colpito dal gesto dei pastori che si fasciavano i piedi per poi si mettersi su cambale. Quest’opera nasce come celebrazione dei pastori e dei contadini che per decenni li hanno usati come strumento per il duro lavoro. Ma ancora di più nel paese Orani quelli che da strumento per pastori e contadini sono stati utilizzati per andare a lavorare in miniera.
Nel libro di Costantino Nivola c’è una foto molto bella dove ci sono questi anziani seduti su una gradinata con le gambe accavallate e i cambali bianchissimi, sembrano verniciati da quanto sono bianchi… e invece erano solo pieni di talco che si attaccava sul gambale ad ogni picconata.
Il cambale quindi assume ancora di più un aspetto identitario e autentico rappresentando un omaggio alla sua terra. E pensare che alla biennale di Ferrara l’avevano scambiato per un pezzo dell’armatura dei gladiatori!
Il corpetto – È stato pensato per essere un omaggio, un simbolo di gratitudine verso le donne. Non c’è neanche un colpo di martello in quest’opera. Il ferro viene scaldato e lentamente plasmato e modellato interamente a mano. Non aggredire la materia ma accarezzarla è alla base dell’idea che ha portato alla realizzazione di questo pezzo. E con una sottile fettuccia di raso si cuciono i due lati, ed è questo il delicato atto finale con cui viene terminata l’opera.
Le vele – Quando le ha create per la prima volta non aveva la consapevolezza che sarebbero state le sue opere più riconosciute.
Era solo d’istinto – afferma Roberto che forgiava delle lastre di ferro e poi le posava sopra dei pezzi di ginepro – Come se il ferro dovesse viaggiare.
E con questa immagine quasi allegorica del viaggio, ha forgiato vele senza mai averle viste. Anche l’uso del legno non è casuale: infatti utilizza solo il ginepro recuperato da terra, andando alla ricerca di legni particolari, magari secolari e così anche un semplice ramo raccolto da terra torna a vivere.
È un binomio perfetto quello del ferro col ginepro: si tratta di dare vita a due materiali poverissimi che insieme nella giusta prospettiva diventano vitali e ricchissimi.
La farfalla – Ad oggi, in seguito alla pandemia, l’opera che ritiene più attuale e anche più sua è senza dubbio la farfalla: un animale meraviglioso che si libra libero e leggero nell’aria.
Quella farfalla è la metafora dell’individuo che cambia. Una metamorfosi che rappresenta questi ultimi due anni. Chi è che non vuole volare oggi? Chi non vuole la libertà? Anche solo col pensiero, quello di riabbracciare i nostri cari…
I futuri progetti
Roberto racconta in esclusiva a City&City due dei progetti in cantiere. Il primo consiste in una mostra dove esporre una serie di ritratti su pannelli di ferro nero. Ritratti dedicati ai protagonisti della storia sarda, per esempio Sciola, Nivola, Maria Lai, Grazia Deledda e Liliana Cano, la pittrice scomparsa alcuni mesi fa.
Uomini e donne che prima di me hanno dato lustro alla mia terra.
Il secondo è quasi un omaggio al grande Pablo Picasso: tutto parte sempre da delle semplici lastre di ferro ma stavolta lavorate per ottenere quadri blu, con una linea luminosa che delimita il cielo dal mare. Lo spettatore verrà così portato a chiedersi cosa c’è oltre l’orizzonte. Dal punto di vista geografico si sa, ma l’intenzione è quella di lasciarsi perdere e trasportare all’idea di futuro. Il concetto racchiuso in quella semplice riga è che c’è sicuramente ancora qualcosa che ci aspetta.
E voglio anch’io perdermi in questo blu infinito. Il blu per me è pace. La luce è quello che ciascuno di noi cerca ogni volta. E cercare quella luce è cercare sé stessi, e quando ognuno di noi trova sé stesso quella luce la puoi donare anche agli altri.