Sassari – Acqua, Mascia è pronto a chiedere lo stato di calamità naturale alla Regione

Tra i vinili e Morricone, lo sguardo appassionato di un bambino fa da sfondo ad un viaggio straordinario, la cui colonna sonora è frutto di anni di ricerca, cambiamenti e sperimentazioni
Questo è Luigi Frassetto, musicista e compositore di Sassari. Dopo gli studi al prestigioso SAE Institute di Londra, nel 2013 debutta con l’EP “The R.J. Session”, prodotto da Rob Jones. Il rientro in Sardegna segna l’avvio di numerose collaborazioni nel campo del cinema e della musica. Nel 2017 dà vita al Club del Disco e, nel 2019, pubblica il suo primo album “33 e 1/3”. City@City lo ha intervistato per voi.
Se penso ai miei primi anni duemila, mi vengono in mente i Rodeo Clown: la città tappezzata di locandine, i concerti al Vintage e al Dolce Vita di Platamona. Tra salti a suon di punk-rock, conservo gelosamente il ricordo di serate memorabili. Molte cose sono cambiate. Cosa ricordi di quei tempi e del ragazzo che eri?
La differenza grossa tra allora e adesso è lo smartphone, indubbiamente. Quello ha cambiato tutto. Perché ha reso desueto, per tanti, il fatto di andare a vedere qualcuno che suona. Stare lì e, semplicemente, guardarlo. Adesso sei costantemente intrattenuto. Per molti, l’uscire per un motivo culturale o pseudo-culturale ha perso di significato, quindi il pubblico si è notevolmente ristretto. Sono rimasti i veri affezionati. Prima ritrovarsi non aveva uno scopo unicamente ricreativo, ma simboleggiava anche un’esperienza collettiva di qualcosa; adesso molto spesso è un ritrovarsi fine a se stesso: il tuo intrattenimento te lo crei da solo, magari facendo delle foto o dei video dell’aperitivo, pubblicandole, controllando chi ha visualizzato il tuo contenuto, o guardando tu stesso quello di altri. Molto spesso l’intrattenimento è questo. Quindi si deve competere non solo con la quantità di contenuti professionali, ma anche con lo svago fai da te che è esploso completamente e che spesso rappresenta l’inizio e la fine dei contenuti che una persona consuma durante la giornata. Erano tempi “analogici”, dove era necessario lo spostamento e, essenzialmente, dove ci si guardava in faccia molto di più.
Preciso: non sono contro lo smartphone o contro i social. Va tutto bene, e io li uso, moltissimo. Hanno indubbiamente aumentato la possibilità di creare contatti, e questo è bello. Molte cose che faccio – anche nel mio mestiere – non le potrei fare se non esistessero lo smartphone e i social, però ci sono aspetti positivi ed altri che lo sono meno. Parlando di locandine, per esempio, adesso dove si vedono? Non ce n’è più bisogno; o forse sì, ce ne sarebbe, ma chi lo fa? Nessuno. In passato era richiesto fare tutta una serie di cose: dovevi muoverti di persona, entrare a contatto con la gente; adesso è più facile creare rete, ma avere contatti reali con le persone era il punto cruciale, proprio ciò che faceva la differenza.
Il mio spirito non è cambiato, è cambiato solo il modo di esprimerlo. Ero fissato con la musica e con il cinema, però prima le due cose non si erano incontrate. Rimane ancora adesso la lezione dei tempi del punk: devi fare tutto da te, non aspettare di aver fatto chissà che cosa prima di esporti. Mettiti in gioco costantemente e fai che la tua evoluzione sia pubblica. Fai le cose da te, non aspettare che qualcuno te le organizzi, non sperare nel sostegno di istituzioni che – specialmente qui in Italia – non daranno mai appoggio ad un ragazzino. Sporcati le mani.

C’è stato qualcuno in famiglia – o comunque vicino – che ti ha fatto appassionare alla musica?
A casa mia non c’era musica. Sono nato che volevo ascoltare musica, in una casa dove la musica non c’era. Ed è per questo che sono convintissimo che la passione per la musica sia qualcosa di innato. Quando ero in quarta elementare ho chiesto a mia madre di comprarmi i fascicoli del Dizionario della Canzone Italiana, che usciva in edicola. Ogni settimana leggevo il fascicolo ed ascoltavo la cassetta; poi aspettavo la settimana successiva, e così via. A 10-11 anni sapevo già compiutamente parlare di musica e di tutto ciò che le ruotava attorno. Un paio di zii ascoltavano musica, per cui qualcosa posso aver percepito da loro, ma era più qualcosa che mi attraeva per un istinto innato: dacché ho memoria, volevo fare musica e pensavo solo alla musica. Non c’era una collezione di dischi in casa, ed ecco spiegato il motivo di quei fascicoli del dizionario: per avere della musica accanto.
Ho smesso di giocare con i giocattoli prestissimo: volevo dischi. Quindi se qualcuno mi voleva fare un regalo, mi facevo portare da Griscenko o alle Messaggerie Sarde. Andavo con mia mamma o mia nonna, perché magari dovevano fare delle commissioni in centro e, se ero fortunato, durante il tragitto la sosta alle Messaggerie ci scappava. La musica ai tempi era scarsissima: non c’era internet, per cui dovevi fartela sdoppiare o possedere l’oggetto fisico. E avere un disco era qualcosa che io agognavo. Perciò già muovermi verso una parte della città che non frequentavo – e che ai tempi era molto più viva di ora – era bellissimo e poi andare alle Messaggerie… C’erano i dischi! Quello che adesso è il Salotto delle Messaggerie Sarde – lo ricorderai – prima era tutto un negozio di dischi, c’erano anche le postazioni con le cuffie per ascoltare. Era una cosa splendida.
Da poco hai pubblicato sui social una foto bellissima, scattata a Parigi nel ’93: lo sguardo sognante di un bambino che si poggia su una chitarra imbracciata da un musicista di strada. Sarebbe incredibile scoprire che la passione per lo strumento è nata proprio lì, su quelle scale della capitale francese.
Suonavo già la chitarra! Nella foto stavo per compiere 13 anni e la prima chitarra l’ho avuta a 11. Ho detto ai miei genitori che avrei voluto imparare a suonare ed inizialmente ho preso anche qualche lezione, ma poi mi sono scocciato perché non era qualcosa di attinente al mondo che vivevo. Peccato, adesso mi dispiace moltissimo, perché mi faceva fare cose tipo la Bourrée di Bach, sarebbe stato utilissimo. Ma è durato molto poco, perché a quell’età già mi ero mosso dalla canzone italiana al rock, che a quei tempi era ancora la musica della “ribellione”, cosa che oggi fa sorridere.
I miei genitori hanno fatto il grande errore (per loro!) di accontentarmi e comprarmi la chitarra – una chitarrina classica da pochi soldi – e da lì ho smesso di andar bene a scuola. La scuola non aveva più alcun senso per me. Anche di questo mi sono pentito amaramente e ho fatto ammenda più avanti nella vita. Passavo il tempo con la chitarra e con un’altra mia passione: gli spartiti (altra sezione fantastica delle Messaggerie Sarde). Le cose a cui sono più affezionato al mondo sono i dischi e la carta e quindi indubbiamente questo fa di me uno di un’epoca passata. In quella foto, a livello di ascolti potevo già esser considerato un veterano; ma poi figurati, vedo un’artista di strada a Parigi – chitarrista, tra l’altro – e mi fermo! Suonava le cose che io avevo appena mollato, però mi interessavano, mi piaceva sentirle suonare dagli altri.
C’è stato un momento in cui hai capito che lavorare nel mondo della musica era ciò che avresti voluto fare nella vita, che sarebbe stato giusto per te?
No, perché lo sapevo da prima, non ci ho dovuto ragionare, era un istinto che avevo da sempre. Dopo ho dovuto fare il processo inverso e capire come mai, se già mi sentivo dentro questo desiderio innato, ho poi avuto molte défaillance. Ma le cose stavano così: da un lato volevo imbarcarmi in un tipo di musica che non prevede un percorso accademico e non avevo intorno a me nessuna figura adulta che mi potesse guidare in questo senso; dall’altro lato ero insicuro perché tutti intorno a me facevano un’università “normale”.
Se sei un ragazzino in qualche modo “diverso dagli altri” – anche se tu con questa cosa ci hai fatto pace – a volte, quando esprimi la tua diversità, sei costretto a scontrarti con una realtà che non ti comprende, e questo inevitabilmente ti ostacola, non ti permette di conoscere veramente te stesso. Ho perso probabilmente il decennio in cui si cresce maggiormente, ci si forma, e quindi sto recuperando adesso.
Hai girato tanto. Prima Milano, poi Londra, dove è nato il tuo primo EP, “The R.J Session”. Io medito spesso sull’andare via dalla Sardegna e molti nostri coetanei vivono la stessa situazione. A volte sembra che manchi l’aria. Paradossale, per chi vive su un’isola, vero? Cosa ti ha convinto a fare dietrofront e tornare a respirare il maestrale?
È stato un caso. Mi hanno chiesto di fare tre lavori: ho prodotto alcuni brani per Mariangela Demurtas, una cantante sarda che ha vissuto per anni in Norvegia (cantava con i Tristania, un gruppo di area rock-metal): era in studio dal mio amico Marco Marini e aveva bisogno di un supervisore artistico per il suo progetto acustico; lo stesso dovevo fare per Beeside, con l’album “Lullabies of love and hate” e poi mi era stato chiesto di comporre le musiche per il documentario “Luci a mare” di Stefania Muresu. Erano lavori che mi avrebbero impegnato da aprile a luglio e quindi ho deciso di tornare qui e smettere di pagare l’affitto a Londra. Sono rimasto tutta l’estate. Nel mentre mi è stato chiesto di portare dal vivo il disco che avevo fatto a Londra, ed anche se ero convinto che non avrei più suonato dal vivo, ho deciso di creare un gruppo con Marco Testoni (tastiere), Gianni Lubinu (basso, in seguito sostituito da Edoardo Meledina), Lorenzo Falzoi (batteria) e Giuseppe Bulla (voce); dopo un po’ ho anche conosciuto Selene, la persona con cui sto adesso, ed ecco che il cerchio si è completato.
Nel frattempo, erano esplosi i social network e c’era stato un rifiorire di locali indirizzati verso la musica, quindi sono tornato in un periodo relativamente florido, in anni che possiamo chiamare “Gli ultimi del rock”. L’Abetone è stato un po’ il propulsore di questa breve ma intensissima rinascita musicale a Sassari, anche grazie alla visione di Giuseppe Bulla. Lui è stato il primo a chiedermi di fare il dj, o meglio selecter, nel suo locale. Era una cosa a cui non avevo mai pensato, eppure mi ci sono ritrovato, probabilmente perché ho una vasta esperienza d’ascolto. Così ho iniziato a divertirmi, mi piaceva. Contemporaneamente mi sono ritrovato a ricevere richieste per comporre musiche per un ambiente cinematografico sardo che stava nascendo, e che adesso si sta sviluppando sempre più. C’era quello, c’erano i nuovi concerti, l’attività di selezionatore… C’era il tanto per rimanere.

Tornare ha anche significato anche intrecciare dei legami fondamentali per la tua carriera. Hai firmato colonne sonore di cortometraggi e film. L’elenco è lungo, ma possiamo citare “I giganti” di Angius, “A chent’annos” di Maciocco, “Luci a mare” di Muresu e “Ananda” di Deffenu (che, tra l’altro, è appena uscito al cinema). Hai anche creato dei gruppi con cui ti esibisci dal vivo.
C’è una cosa importante da dire: il lavoro di composizione – quindi di studio a casa – è quello che più mi rappresenta, quello che attiene alla musica strumentale. Quello sono io. Per quanto riguarda i concerti, ci ho preso certamente gusto a farli, ma è nata più che altro come un’esigenza, perché tornato qui nessuno mi conosceva più, se non per il passato. Quindi presentarmi come “Luigi Frassetto Quartet” era importante, era una maniera di espormi e mi sono dovuto impegnare tantissimo per riuscire a farmi conoscere di nuovo nell’isola. Successivamente, lo storico “Quartet” si è trasformato in “Double Quartet” grazie al contributo del quartetto d’archi composto da Alessio Manca (violino), Francesca Fadda (violino), Gioele Lumbau (viola) e Francesco Abis (violoncello). Adesso i concerti sono diventati un nuovo territorio artistico che mi piace esplorare, però sono una costola del lavoro in studio come compositore e realizzatore.
È più facile trovare qui l’ispirazione per comporre?
Credo che l’ispirazione sia un po’ un mito. Nel mio caso, la maggior parte delle volte compongo per progetti audiovisivi altrui, quindi l’input non viene da me, ma da fuori. Ciò che devo fare è rovistare continuamente nel mio bagaglio di conoscenze e di esperienze musicali per cucire un vestito che stia bene sul progetto che mi è stato assegnato. Qualche volta può venire un’idea particolarmente fulminea e chiara, ma non è necessariamente legata al luogo, quanto più che altro al vissuto.
Nel 2019 hai pubblicato il tuo primo album, “33 e 1/3”. Cosa si prova a tenere in mano il proprio vinile per uno che i vinili li ama?
È bellissimo, perché hai passato la tua infanzia e giovinezza a scartare i dischi degli altri, ed invece ora stai scartando il tuo. Sentire che esce la tua musica dai solchi, dove poggi la puntina – che è quel rituale per te quasi sacro – è una sensazione bella, difficile da descrivere.
A proposito di questo, parliamo del Club del Disco, dell’ascolto condiviso e monotasking della musica, tua meravigliosa idea nata nel 2017. Gli appuntamenti al Vecchio Mulino sono previsti fino a maggio, vale la pena prender parte a questa avventura.
Credo che sia la cosa migliore che io abbia mai fatto. Lo dico a bassa voce: se mai qualcuno dovesse ricordarmi, e dovesse farlo per il Club del Disco, penso che mi farebbe ancora più piacere che per le mie musiche. Perché è il mio modo di fare qualcosa per l’ambiente in cui vivo. Il Club del Disco è ricordarsi cosa significa ascoltare musica, ovvero far caso a dei suoni senza che ci siano delle immagini. Riscoprire l’esperienza dei suoni, senza fare altro nel mentre. E farlo insieme agli altri. Perché io ti posso anche passare un link, ma non avviene una vera esperienza. Tu premi play e credi di avere ascoltato, ma magari nel frattempo ti arriva un messaggio, o ti distrai con un video.
Invece prima ci si ritrovava a casa dell’amico, si ascoltava il disco insieme.
Esatto! Lo si ascoltava seduti, assorti, ognuno pensava ai fatti suoi, qualcuno al massimo teneva la copertina in mano, non c’era uno schermo. La differenza tra la carta e lo schermo è tantissima. Il Club del Disco è un atto direi quasi politico, poiché cinque anni di invito alla disconnessione momentanea e all’ascolto hanno un significato politico nel senso migliore del termine, in quanto si può godere di benefici che vanno molto al di là del mero ascoltare musica: da un lato, ci si rende conto che è ancora possibile concentrarsi su qualcosa per un tempo più lungo di quello a cui normalmente siamo abituati e, dall’altro, si mette di nuovo l’arte al centro del dibattito. Parliamo del significato sociale dell’arte e quello dell’artista, cosa che tragicamente si trascura oggi, tanto che molti non sanno nemmeno più cosa vuol dire il mestiere dell’artista e qual è il suo ruolo nella società, al punto che il potenziale virtuoso di incisione sul tessuto sociale da parte dell’artista rimane spesso inespresso per la mancanza di un humus ambientale.
Questa è una cosa che a me fa soffrire molto, ma ho pensato che tale dispiacere dovesse trasformarsi nel carburante per fare quel poco che posso per l’ambiente in cui sto, Sassari. Così sono partito dalla base: ascoltare musica senza fare nient’altro. Una cosa apparentemente banale, che invece banale non è, ma è tutta da riscoprire.
Ricordo i Beatles ed Elton John tra i tuoi preferiti. Qual è stato il primo vinile che hai acquistato?
Credo che il primo sia “Bad” di Michael Jackson ed il secondo Tracy Chapman, l’album omonimo. Quindi il periodo ’87-’88. Ovviamente ero piccolissimo, li ho chiesti ai miei genitori. I capisaldi, per me, a parte il pop degli anni ’80, sono: la canzone italiana (da Modugno fino agli anni ’90: tutta!), i Beatles (li ascolto dalle elementari), il rock classico e, subito dopo, quello degli anni ’90 e il punk. La canzone italiana è la base di tutto, per me. Io vengo da lì, la mia preferita è quella degli anni ’50 e ’60, che ha un rapporto abbastanza stretto con la classica: gli arrangiatori principali della RCA erano Morricone e Bacalov. Infatti, la musica italiana del tempo e la musica da film si assomigliavano tantissimo, ed ecco perché a me piace da morire la musica per film ed ho trovato naturale questo passaggio. Molti mi dicono: “Ma tu vieni dal rock!”, ed in realtà no, vengo dalla musica italiana orchestrale di quegli anni.

Nel 2020 hai vinto il premio Mario Cervo per il Miglior Disco dell’anno. E, nello stesso anno, hai avuto la possibilità di aprire il festival Abbabula de Le Ragazze Terribili con l’Omaggio a Morricone. Aprire un festival in un periodo tanto critico come quello della pandemia deve esser stato forte, anche perché il settore musicale è stato uno dei più colpiti. Ricordi cosa ha significato per te?
È stata praticamente l’unica cosa che ho fatto nel 2020, oltre alla breve apparizione al Mario Cervo. In un periodo buio, quell’evento si è rivelato ancora più significativo. Ero molto felice che avessero chiesto a me di fare un tributo a Morricone; poi era un momento in cui aspettavo tanto una chiamata. In quel progetto ci ho messo tutto me stesso ed ho pensato che prima o poi sarei stato destinato, perché Morricone rientra tra ciò che ho coltivato di più: parlare di “fissazione” mi sembra quasi riduttivo, si può dire che ho una conoscenza del suo repertorio a livello sottocorticale!
Cosa stai facendo adesso?
Sto preparando le musiche per un documentario lungo di Marco Antonio Pani, di cui non posso ancora svelare molto. Inoltre, sto lavorando ad un concerto per il centenario di Pasolini: mi è stato chiesto dal Festival del cinema di Tavolara, ma siccome è un progetto molto importante, credo che, dopo quell’occasione, continuerò a portarlo in giro quest’estate.
Poi uscirà a breve anche il filmato integrale del mio concerto su Morricone e in seguito, inevitabilmente, ci sarà tutta una serie di “morriconate” sempre più espanse, perché man mano che questi progetti crescono con me, cerco di trasformarli e renderli sempre più miei. Il filmato fotografa, infatti, un certo livello di trasformazione del materiale. Le cose che faccio difficilmente le abbandono, anzi: si sommano e continuo ad avere sempre più frecce per il mio arco.
Nel frattempo, stai studiando al Conservatorio.
Sì, sto studiando composizione. Parto dalla musica “pop”, nel senso di musica empirica, ma dato che la musica ha da sempre accompagnato ogni mio passo verso la maturità, a un certo punto mi sono reso conto che ciò che sapevo non mi bastava più. Così mi sono iscritto al Conservatorio da grande e sono contento di averlo fatto.
Cosa ti viene in mente, invece, se pensi alla colonna sonora del futuro?
Vorrei continuare a fare quello che sto facendo. È una ruota che gira. Normalmente succede che non ho finito un progetto e già ne ho un altro (o più di uno) che mi viene chiesto o mi viene in mente. Tutta la mia vita è stata sempre il progetto del momento. Perché mi viene abbastanza naturale fare dei progetti artistici, mi piace svilupparli, mi entusiasmano, rendono la vita interessante, degna di essere vissuta. E io la mia vita l’ho organizzata sacrificando tante cose, proprio per riuscire a perseguire questi obiettivi. Il futuro è già abbastanza delineato per me.