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‘Il coraggio di dare la notizia’ nel libro “Faccia da Mostro” di Lirio Abbate
Lirio Abbate fraseggia lento, misurato, articolando i misteri, gli orrori, lunghi trent’anni di storia italica condensati dal protagonista del suo ultimo libro, “Faccia da mostro”, presentato nei giorni scorsi a Sassari nella libreria Koinè. Storie vere di omicidi, attentati, complotti, e di un enigmatico personaggio a queste associato, così ipotizza lo scrittore, dagli anni ’70 ai ’90, nella zona grigia dell’eversione. E per rischiarare questa penombra criminale, Abbate, vicedirettore de L’Espresso, ha indagato a lungo provando a circoscrivere la figura sfuggente, ma fermata nella memoria di chi l’ha incontrato da un profondo sfregio sul volto, di “Faccia da mostro”, alias Giovanni Pantaleone Aiello
LIRIO ABBATE – Dava di sé un’immagine dimessa, all’apparenza poco intelligente, quasi compassionevole. Nato a Montauro, in Calabria, viveva in una baracca di un paese vicino a Catanzaro ma allo stesso tempo viaggiava molto, tra nord e sud, senza che nessuno si chiedesse mai il perché di questi spostamenti. Ora sappiamo che, pur non essendo un mafioso, incontrava i boss di Cosa Nostra e della ‘ndrangheta, tra Calabria, Sicilia e Campania, mettendoli in relazione con gli uomini delle istituzioni.
La vita di Aiello è un mistero su cui però si può segnare, in origine, un punto fermo. Tra il 1967 e il ’68, per l’allora poliziotto della Squadra Mobile di Palermo, arriva l’incidente che, si presume, gli cambia la vita.
LIRIO ABBATE – In Sardegna viene ferito da un colpo d’arma da fuoco al volto. Come e perché si trovasse nell’isola non lo sappiamo. Qualcuno pensa che fosse alla ricerca di Graziano Mesina ma non ci sono conferme. Di sicuro c’è soltanto la pallottola sulla mandibola, l’operazione chirurgica e i problemi psicologici che, negli anni ’70, sono la probabile causa del pensionamento anticipato. Da quel momento Aiello sparisce finendo col condurre una doppia vita che somiglia tanto a un thriller americano. Un’esistenza casalinga che procede in parallelo con quella di un uomo che partecipa a missioni d’assalto ed è un esperto di armi ed esplosivi formatosi, come raccontano i mafiosi, nei campi sardi di Gladio (l’organizzazione paramilitare voluta dalla CIA per impedire l’invasione dell’Italia da parte dell’Urss n.d.r.). Ma a parte le suggestioni filmiche Aiello mi ricorda i serial killer descritti dallo scrittore Carlo Lucarelli, sempre attaccati ad alcune abitudini. Faccia da mostro, ad esempio, ha usato per decenni lo stesso tipo di Land Rover e gli stessi modelli di moto giapponesi.
La sua persona, ancora innominata e forse innominabile, viene collegata dai pentiti, nel corso degli anni, a diversi fatti di sangue alcuni dei quali rappresentano tuttora un buco nero per l’Italia.
LIRIO ABBATE – Lo associano agli omicidi degli agenti Ninni Cassarà, Roberto Antiochia, Natale Mondo, di Claudio Domino, un bambino di undici anni, all’attentato all’Addaura contro il giudice Giovanni Falcone, all’assassinio di Nino Agostino, un altro rappresentante delle forze dell’ordine, e di sua moglie Ida Castelluccio. Gli si conferisce un ruolo di primo piano pure nelle stragi di Capaci e via D’Amelio, che portarono alle morti di Falcone e Borsellino, e in quelle del ’93 a Firenze e Milano. Di frequente i collaboratori di giustizia lo vedono in coppia con una altrettanto misteriosa, e pericolosa, donna, su cui il libro si sofferma. Ma, nonostante le tante segnalazioni su Aiello, per arrivare al suo nome ci vorranno decenni.
Un lungo anonimato che si spiega, secondo il giornalista, con protezioni importanti.
LIRIO ABBATE – E’ riuscito a entrare nei gangli più particolari della storia mafiologica siciliana e calabrese, senza mai essere sfiorato. Si sentiva invincibile e, soprattutto, coperto da una struttura che ancora oggi non conosciamo. Il Sisde (Servizio per le Informazioni e la sicurezza democratica n.d.r.) e gli apparati di intelligence dell’epoca hanno infatti smentito ufficialmente qualsiasi collaborazione con lui.
L’invisibilità si interrompe con le prime rivelazioni e l’arrivo dei giornalisti a casa sua.
LIRIO ABBATE – Nelle risposte sembra lanciare dei messaggi a qualcuno, come se dicesse “Mi hanno scoperto. Fate in modo che ne esca.” Tra l’altro, sa di essere intercettato, fa delle ammissioni, ma sempre nell’ottica di un sos che, forse, non è arrivato a destinazione. In ogni caso, proprio quando partono le indagini, stanno per iniziare i processi e viene riconosciuto come complice nell’omicidio di un poliziotto, Giovanni Aiello che, fino a quel momento non aveva avuto problemi di salute, nel 2017 muore d’infarto a settant’anni accanto alla barca che stava tirando a riva sulla spiaggia del paese vicino a Catanzaro dove viveva. Il suo corpo, su richiesta della famiglia, riceve la cremazione. Se mai qualcuno volesse riscrivere la storia del suo decesso non potrà più contare sul dna. Tra l’altro muore, lo dico per una questione di mia garanzia processuale, da innocente perché nessuno lo ha mai giudicato muovendogli contro una sentenza. Fino al momento della morte rimane incensurato.
Sono molti i particolari della vita di ‘faccia da mostro’ che narrano la complessità del personaggio.
LIRIO ABBATE – Scrissi per l’Espresso un articolo su di lui molti anni fa senza nominarlo riferendo delle indagini che lo riguardavano. Aiello, intercettato, telefona a un amico di Treviso rivelandogli di trovarsi in un articolo del settimanale ricevendo l’incomprensione dell’altro che, ignaro dei trascorsi di ‘faccia da mostro’, non riesce ad associarlo a nessun pezzo. Due anni dopo, i conoscenti lo chiamano perché hanno letto l’intervista fattagli sul quotidiano Repubblica. Aiello afferma di non sapere cos’è Repubblica e nemmeno dove trovarla: “Forse dalla fioraia?”, dice. Da lì parte la suggestione perché vedi agire la doppia personalità di un uomo che si presenta come quello che non sa nulla nel secondo caso e sa tutto nel primo.
Il libro nasce dai documenti dei processi rigorosamente studiati.
LIRIO ABBATE – Ma non sono legato agli atti giudiziari in sé. Mi servono perché danno riscontro a una mia indagine. Faccio il giornalista per far ragionare le persone che mi leggono attraverso fatti concreti e circostanze che posso dimostrare. Lo scopo è portare all’analisi tutto quello che per me può fare notizia, e avere una rilevanza sociale e politica.
Abbate, più volte minacciato dalla mafia, ed eletto da Reporter senza frontiere come uno dei “100 eroi dell’informazione nel mondo”, spiega alla fine dell’incontro moderato dalla criminologa Lorena Piras cos’è per lui il coraggio.
LIRIO ABBATE – Significa essere coerenti con quello che si fa nella propria vita, vuol dire avere il coraggio di denunciare quando scopri qualcosa che puoi provare e documentare, e che porterà a illuminare storie che molti vogliono lasciare nel buio. Il coraggio che in passato alcuni giornalisti hanno avuto pagando con la propria esistenza. Nel libro a darmi coraggio è stato il raccontare la storia di Claudio Domino, un bambino ucciso a Palermo durante il maxi processo contro la mafia negli anni 80. Un omicidio insoluto su cui perfino la Procura si era dimenticata di indagare. Scriverne ha aiutato i genitori a chiedere la riapertura del caso grazie ai documenti che ho pubblicato e che tracciano una strada per individuare il presunto autore dell’assassinio. O almeno per capire perché Claudio è stato freddato con un colpo di pistola in fronte da un killer che era alla guida di una moto giapponese. Spero che il libro aiuti anche altri a trovare il coraggio per squarciare il velo di omertà istituzionale che si è creato intorno ad Aiello.
Si ringraziano la Libreria Koinè e Aldo Addis per le foto