Tempio Pausania – Al Teatro del Carmine Jashgawronsky Brothers in ToyBoys
Matteo Boccolini: il protagonista silenzioso
Ph. Luigi Canu
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Quando si sale su un’auto potente, ci si gode il viaggio e quasi mai si pensa agli ingranaggi del motore. Eppure senza quell’ingranaggio l’auto si fermerebbe
Anche una squadra di basket è un’auto potente, e abbiamo incontrato un importante ingranaggio, colui che permette il gesto atletico più eclatante o fa sì che un giocatore possa stare in campo per un minutaggio interminabile. Questo marchigiano solido, di pochissime parole è Matteo Boccolini. Lo vediamo sempre defilato nelle foto ufficiali, quasi mai rilascia interviste, è schivo ma dal 2010 ha vinto molto, sino allo scudetto del 2015, uno scudetto storico per la squadra sassarese. E lui è uno dei protagonisti che abbiamo voluto conoscere meglio
Dalle Marche alla Sardegna, quale è il suo rapporto con queste due regioni così differenti?
Se penso alle Marche e alla Sardegna il primo pensiero è che sono fortunato. Fortunato perché sono due regioni diverse per alcune cose ma simili per altre. Simili perché sono ancora misura d’uomo, sono luoghi in cui conta ancora il rapporto con le persone, si dà un valore alle persone. Simili perché c’è ancora la cultura forte della famiglia e della comunità in cui si vive. Non c’è il solipsismo esasperato dell’individuo. Simili per la cultura del lavoro, dove il lavoro è sacrificio ma non si vive per il lavoro. Simili perché sono due isole (per aspetti diversi) bellissime da un punto paesaggistico ed artistico. Meravigliosamente belle, da scoprire in ogni angolo, in ogni borgo, in ogni linea di costa. Difficile spiegare il rapporto che ho con loro perché per me sono casa ormai: uno dei miei amici più cari dice di me che sono il sardo nato altrove…e detto da un sardo è un complimento enorme. Le Marche sono il luogo della famiglia, la Sardegna è il luogo dove vivo e mi realizzo come uomo.
Lei è stato uno degli artefici dei tanti successi della Dinamo: quale è la ricetta vincente del preparatore atletico Boccolini?
Amare il proprio lavoro e sentirsi felice e fortunato di farlo sono la prima cosa. Solo così si riesce a dare qualcosa in più ad un giocatore, e questo vale non solo nel basket ma suppongo in ogni ambiente lavorativo. Questo amore per il proprio lavoro, questo rispetto che si deve a quello che si fa viene percepito dal giocatore che si sente più sicuro, più tutelato. Ma anche più motivato lui stesso a dare un 10% di energia e di impegno.
Importanti sono lo staff e la struttura in cui si lavora, la collaborazione, le risorse messe in campo, gli strumenti, la serenità. Questo mix di componenti formano quella qualità molto alta che è richiesta ed è fondamentale per aumentare la percentuale di successo; certo non è un equazione matematica ma sicuramente i particolari aiutano ad avere più possibilità di ottenere successi.
Giocatori che vanno e che vengono. Quali sono quelli che le sono rimasti impressi e perché?
Impresa ardua fare un elenco di nomi, e ricordo tutti, ma non saprei dire chi mi sia rimasto più impresso. Sono tutti così diversi, ognuno di loro ha avuto una peculiarità, un punto di forza e di eccellenza. Vede, quando si lavora con dei giocatori per tanti mesi, si vive con loro ogni giorno, per moltissime ore. In Sardegna questo tempo viene dilatato giocoforza per i lunghi viaggi che dalla Sardegna dobbiamo fare, è un surplus di quotidianità da vivere fra aeroporti, hotels, lunghi percorsi in pullman, in palestra. È umano che alla fine si instaurino rapporti che vanno oltre l’ambito strettamente professionale. Impari a conoscerli come uomini, pregi e debolezze. Difficile fare nomi anche se le persone che sento sempre sono Manuel, Jack, Travis, Dusko, Rock, Marco, Achi, Scott …veramente non saprei dire e non sarebbe giusto. A parte forse Manuel Vanuzzo. Con lui ho un grande rapporto di amicizia personale, ci sentiamo spesso. Mi sento molto legato a lui.
Quali traguardi sogna?
Per me è importante che ogni successo sia un esempio per la Sardegna, un esempio positivo. Pensate alla sconfitta di Venezia, quella di gara 7. Abbiamo sicuramente perso ma nel contempo, secondo me, abbiamo vinto, abbiamo dato un grande esempio di sportività e di reattività nel dimostrare a tutti che da situazioni difficili ci si può risollevare. Molte volte non conta il traguardo ma il percorso. È lì che si misura la volontà e la qualità di un atleta, di un individuo, di una squadra: nei percorsi difficili non nelle strade in discesa
Cosa la lega a questa squadra?
Ovunque andrò la Dinamo è la mia seconda pelle, qui mi sento a casa, continuo a vivere qui anche a campionato finito, salvo qualche puntata a Porto San Giorgio per le vacanze, dove ho ancora la mia famiglia di origine. E non lo dico per piaggeria, sa? Sul braccio ho fatto un tatuaggio, ho tatuato proprio la Sardegna; un tatuaggio è una cosa definitiva, ci si tatua simboli importanti, che abbiano per noi un significato profondo, e per me è stato naturale fissare la Sardegna sulla mia pelle, fa parte di me, del mio sentirmi vivo. No, la Dinamo non è solo una squadra di basket, non è solo il mio lavoro: è un sentimento profondo, un’appartenenza.