Scherma – Orgoglio CUS Cagliari: il fioretto maschile va in B1

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Avremmo potuto intervistare noi Lorenzo, ma abbiamo preferito lasciarlo fare ai nostri lettori. Attraverso il nostro sito cityandcity.it e la nostra pagina Facebook vi abbiamo chiesto di inviarci le vostre domande alla mail di redazione. Inutile dire che siate stati tanti e che le domande fossero molto interessanti ed articolate. È stato necessario scegliere: non vogliatecene
Lorenzo ha fatto pace con l’uomo con il quale simmetricamente tutte le mattine si fa la barba. Ora si conoscono bene, loro. Ognuno ha messo a nudo le proprie debolezze. Si rispettano. Non si giudicano. Lorenzo è quello che fra tanti genitori è oramai conosciuto come Braina…
Chissà poi perché con il solo cognome… Lorenzo ha una capacità di comunicare fuori dagli schemi. Sceglie le parole con la cura di chi vuol essere preciso, ma di chi al contempo non vuole escludere nessuno dalla comprensione. È pedagogista esperto in mediazione sociale, scrittore, fondatore e direttore scientifico del Centro Crea, con base ad Oristano, attraverso il quale vengono organizzati reading educativi per genitori, insegnanti ed educatori in genere. Dinamiche familiari viziate e debolezze genitoriali vengono messe in luce con rodata capacità oratoria suscitando nella platea ora risate, ora lacrime.
Quando si esce da una sua conferenza si avverte una strana sensazione di equilibrio instabile: Lorenzo crea il vuoto sotto le tue certezze che ora faticano a stare in piedi. Poi rientri a casa, abbracci i tuoi figli, cogli il comune denominatore di tutto ciò che hai ascoltato e capisci cosa devi imparare a fare: devi imparare a non giudicare.
Lorenzo te ne comunica l’importanza e ti fornisce subito un’occasione per mettere in pratica ciò che hai appena appreso. No, non ti sottopone l’esempio facilitato dall’astrazione di un ipotetico signor X; Lorenzo ti parla di sé, di quando si è perso e di quando si è ritrovato.
Se potessi tornare indietro nel tempo e avessi la possibilità di modificare qualcosa nella tua infanzia o adolescenza, cosa cambieresti?
Maria Giovanna, mamma di Sofia 11 anni e Mirco 8 anni
Domanda complicata. La mia adolescenza è stata complessa e quindi verrebbe da dire che cambierei tutto di quel periodo in cui ho sofferto ed ha sofferto chi mi voleva bene. Ma la verità è che non cambierei nulla; ognuno percorre il proprio cammino ed il mio e quello della mia famiglia doveva attraversare quella sofferenza, quel dolore, quella difficoltà. Avevamo una storia familiare con la quale fare i conti e situazioni da vivere per diventare ciò che come famiglia ora siamo e ciò che io sono oggi come uomo: una famiglia mediamente squilibrata ed un uomo mediamente squilibrato. Ai genitori che mi dicono di aver sbagliato nel passato dei loro figli dico sempre che dovremmo smettere di dire che si poteva fare di più e cominciare a dire che in futuro si potrà fare di meglio. Questo credo valga anche per me e per la mia vita. Potrò fare meglio in futuro, ci sto lavorando.
Una volta appurato che non stanno facendo niente di illecito, è giusto che i figli seguano i loro ritmi? Uscite, orari per lo studio, per l’aiuto in casa… oppure è giusto pretendere che si adeguino alle esigenze della famiglia?
Antonella, mamma di Luca, 18 anni e Fabio 13 anni
In generale dico che bisogna lasciare che il figlio trovi il proprio modo di stare al mondo e quindi che va anche assecondato nelle sue inclinazioni, nel suo modo soggettivo ed unico di stare nella vita. Ma per far questo un figlio ha bisogno anche di un grillo parlante che gli ricordi che la vita è fatta anche di doveri. Solo comprendendo anche questo il figlio potrà poi provare a mettere insieme il piacere e la responsabilità, la libertà ed il confine, i suoi ritmi e le sue inclinazioni e il mondo nel quale deve vivere. Un figlio senza una guida e un contenimento si perde. Si educa con amore, cura e protezione, ma anche facendo in modo che i ragazzi facciano i conti con il limite e le aspettative del mondo.
Fare l’educatore è sicuramente un tuo talento. Quando ti sei reso conto di averlo?
Serena, mamma di Carmen e Giorgio, 17 anni
Credo di avere una buona capacità comunicativa e relazionale e questo mi ha portato al lavoro che faccio; divulgo il pensiero dei grandi pedagogisti e psicologi del passato in modo da farlo arrivare a educatori, insegnanti, genitori. Questo mi porta a tenere lezioni in università, conferenze nel piccolissimo paese o davanti a ragazzi delle scuole superiori. Ecco, se dovessi dire quando ho scoperto che potevo dare qualcosa come educatore, è stato proprio quando mi sono reso conto che ai miei corsi partecipavano indifferentemente studenti universitari, laureati, genitori e ragazzi. C’è da dire però che per parlare in pubblico ho conseguito specializzazioni post universitarie che mi hanno impegnato per cinque anni. Credo che in questo campo, come del resto in qualsiasi campo, il solo talento non possa bastare.
Come possiamo superare la paura dell’altro?
Lalla, nonna di Aisha, 4 anni
Se parliamo di bambini non dimentichiamoci mai che educare è dare un porto sicuro e un rifugio, ma anche la voglia di esplorare il mondo. Un bambino ha bisogno di un riparo, ma se il riparo è troppo confortevole, se il porto è troppo sicuro, il bambino rischia di non avere il desiderio e il coraggio per esplorare e per navigare fuori, confrontarsi con i venti, la bellezza del mare aperto e le burrasche della vita. In fondo, come diceva qualcuno, il vero naufrago e chi non ha mai lasciato il porto. Non dobbiamo mai dimenticare che l’educazione è un processo che deve rendere i bambini liberi da noi e pronti per il mondo.
In che modo possiamo aiutare i genitori a capire che evitando di far vivere ai propri figli qualsiasi tipo di frustrazione non li aiutano affatto?
Grazia, insegnante di scuola primaria, mamma di Stefania, Martina e Claudio, adulti
Voler evitare al figlio frustrazioni è umano, augurarsi per lui una vita senza difficoltà è comprensibile; ma tutti sappiamo che questo è un desiderio irrealistico e quando questa genitoriale speranza si trasforma in progetto educativo sistematico il figlio semplicemente non si allena alla vita.
La vita ti chiede conto e propone ostacoli; non affrontarli scansandoli non significa superarli, significa solo rimandarli e quando la vita te ne porrà di più grandi non sarai in grado di superarli. Mi verrebbe da dire che è meglio superare un ostacolo inciampando e facendosi male piuttosto che aggirarlo.
In un’epoca come la nostra nella quale i social media rischiano di prendere il posto della vita reale, i ragazzi corrono il rischio di dipendere dai likes?
Giacomo, insegnante di scuola secondaria di primo grado
L’era dei social ci ha sorpreso, è arrivata con una velocità inaspettata che non ci ha dato il tempo di mutare i nostri sistemi culturali ed educativi. Ci hanno dato in mano uno strumento potentissimo senza che fossimo pronti ad usarlo piuttosto che ad esserne usati. Tutti, non solo i ragazzi, corriamo il rischio di dipendere dai likes. Ma attenzione: il like è tanto più importante quanto più la mia autostima, la convinzione di valere perché esisto, sarà bassa.
Ed allora forse il segreto con i ragazzi è alimentare la loro autostima, metterli nelle condizioni di credere nel loro valore senza condizioni. Il like conterà sempre, ma se avranno una buona autostima non ne saranno dipendenti.
Possiamo affermare che l’empatia umana tradizionale sia oramai completamente tramontata nell’era dei social?
Annalaura, insegnante di scuola secondaria di secondo grado
No, l’empatia umana non tramonterà mai. Ogni epoca ha i suoi modi di manifestare il malessere. Quello di oggi, per molti ragazzi, è chiudersi in camera a vivere un virtuale rassicurante piuttosto che l’ansia e l’incertezza di un incontro reale. Ma non è per tutti così; lo è solo per chi ha una difficoltà, una ferita, una mancanza ed allora prova a difendersi rifugiandosi nel virtuale. In altre epoche gli stessi ragazzi avrebbero usato modi diversi – e non meno distruttivi – per manifestare il proprio disagio.
I social sono una grande opportunità o un grande problema e questo non dipende dal social in sé, ma dallo stato esistenziale in cui ci troviamo quando li usiamo. La domanda da farsi è cosa tema il ragazzo dal reale, dall’incontro empatico con l’altro. Se troviamo questa risposta comprendiamo che il social può essere il rifugio di chi vive un problema e non la causa di questo.
Una volta ti ho sentito dire che per educare un bambino serve un’intera comunità: è sempre così anche in un’epoca fatta di individualismo come quella nella quale viviamo?
Salvatore, insegnante in pensione e nonno di Enrico, 9 anni
L’educazione di un figlio è sempre un atto collettivo. Contribuiscono all’educazione la famiglia, i parenti – più o meno stretti -, gli insegnanti, un allenatore di calcio e tutti gli adulti che incontrano il bambino. E questo avviene ora come nei tempi passati. Non sempre però queste componenti remano insieme e tutte nella stessa direzione; l’incoerenza tra adulti comporta un disorientamento nel bambino. Siamo sempre comunità educante anche quando non lo vogliamo o non ne siamo capaci; il bambino sarà sempre il frutto di un noi. Per questo dovremmo cercare di tessere le fila, di stringerci insieme per il bene più prezioso che abbiamo: i bambini.
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