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L’intervista | Quello che Enrico Ruggeri ci ha detto
Un Ruggeri “rivoluzionario” racconta @City&City la sua voglia di continuare a fare musica «che suona» anche dopo 50 anni di carriera
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In Sardegna vieni regolarmente, ormai sei di casa.
Ho saltato tre anni, però adesso siamo già venuti due volte, torniamo a Carbonia e abbiamo in programma altri due concerti.
Ne è passata acqua sotto i ponti da quel tuo primo concerto nell’isola a Uta, nei primi anni Ottanta, dove facesti… Zero paganti.
E una decina in un altro posto che si chiama Pabillonis, era il 1981, 42 anni fa. Francamente non mi ricordo se poi abbiamo fatto due o tre pezzi.
Avrai tanti aneddoti, un ricordo particolare di un concerto nell’isola dove sei molto amato come si è visto a Porto Torres il giorno di Pasquetta.
Concerti bellissimi, veramente tanti. Io l’ho sempre detto che uno dei pubblici migliori, tra i più competenti, è quello sardo. Il pubblico più intonato.
Punk prima di te. Sei stato protagonista degli ultimi cinquant’anni di musica del Bel Paese. Esiste ancora una scena musicale ‘credibile’ in questo tempo definito tra i tanti termini “liquido” dove tutto corre velocemente e gli artisti durano un amen?
Forse sì, alcune cose cerco di segnalarle. Gabriele Masala per esempio è secondo me uno di questi. La Sardegna ha avuto grandi personaggi: Andrea Parodi, Maria Carta, Piero Marras, nel jazz Fresu e, tutto sommato, anche Salmo che è più rock di tanti altri. Masala però non è un ragazzino, se mi parli di nuove leve, mi parli di ventenni, non lo so, sembrano tutti più bravi su Instagram che sul palco.
Un mare di persone, amici che volevano partecipare a una grande festa fatta di musica, senza trucchi, imbrogli, sequenze, basi…solo una grande band con tanta voglia di comunicare. Oggi, appunto, la tecnologia permette di esagerare con trucchi, imbrogli, sequenze, basi. La tua era una provocazione, una denuncia oppure è lo specchio dei tempi, quelli dell’autotune come se piovesse?
Oggi i concerti non sono concerti perché per me dire che un concerto è una serie di musicisti che fingono di suonare su una sequenza per me non è un concerto. La mia è una constatazione. Vai a vedere un concerto e quello che senti non è quello che viene prodotto sul palco in quel momento, è una sequenza, rasenta la truffa.
Nel tuo ultimo album ‘La rivoluzione’ ho letto da qualche parte che avevi ‘la necessità di dimostrare che la musica può ancora suonare’ Non è una contraddizione in termini? Oppure in questo strano secolo capita che ‘la musica non suoni’?
La musica dovrebbe suonare ma non è più così. Oggi la musica è una rivalsa sociale per cui il ragazzino si mette a rappare su una base che ha trovato online e poi passa tantissimo tempo, invece che in cantina a provare, sui social per cercare di diffondere il suo pezzo; è diverso rispetto a quelli che passavano tutto il giorno in cantina a suonare.
‘Rivoluzione’ è un titolo che alle nostre latitudini rischia di essere un po’ fuori moda. Dicono che non siamo un popolo che si ribella facilmente come invece, ad esempio, i francesi.
Sono abbastanza d’accordo. Oggi quando ci si ribella, si viene subito delegittimati. Mi ricordo il movimento dei forconi. Il potere è molto bravo nella comunicazione. Guarda cosa è successo a Trieste quando i portuali si sono ribellati perché stavano licenziando i non vaccinati.
Tu invece rivoluzionario lo sei stato? Hai detto: “Io da ragazzo se vedevo tutti con i capelli lunghi li tagliavo”. Oppure rivendicavi solo una tua autonomia?
Rivendicavo la mia autonomia. Appartengo ad una generazione in cui tutti cercavano di distinguirsi, anche con l’ingenuità degli adolescienti però oggi c’è una omologazione terribile per cui sono vestiti tutti uguali. La globalizzazione fa sì che tutti siamo un po’ uguali.
Un po’ come il tuo percorso da cantautore: hai sempre tirato dritto per la tua strada.
Ho sempre cercato di fare quello che la mia ispirazione mi suggeriva per cui cercavo di seguire una mia linea che non fosse quella degli altri. Mistero è un brano rock che vince Sanremo nel ‘93, un pezzo rock senza l’inciso che riesce a vincere Sanremo. Dopo è successo solo con i Maneskin.
Hai rilasciato di recente il tuo ultimo singolo “Dimentico” che tocca un aspetto della nostra vita particolarmente delicato.
Con la nazionale cantanti abbiamo fatto una partita a favore di questa associazione che si chiama Meridiana, poi noi andiamo a vedere cosa succede nella associazione per cui giochiamo, poi io sono il presidente per cui lo faccio più spesso degli altri. Ho trovato questo villaggio in un posto incredibile, un borgo dove ci sono all’interno questi malati, naturalmente curati a vista. Una esperienza per me molto forte.
Youtube, Spotify sono lo specchio dei tempi ma d’altra parte hanno tolto un po’ di quella magia che il supporto fisico regalava. Molti teenagers lo considerano quasi obsoleto. È necessario adeguarsi oppure l’uso massiccio del digitale ha contribuito a ridimensionare il concetto di musica come arte?
Ma guarda Spotify è l’acqua corrente, il vinile è lo champagne
Hai detto di recente «Ho avuto molto di più di quello che immaginavo». C’è invece un rimpianto particolare nella tua carriera di musicista?
Rimpianti ce ne sono sempre. Tutte le volte che andavo all’estero a suonare, e a Londra i tecnici inglesi che ci facevano suonare, ci dissero non sembrate italiani. Mi è successo questo anche a Mosca, San Paolo del Brasile, Toronto, Rio de Janeiro. All’estero devi avere determinati meccanismi dei quali non ho mai usufruito: una casa discografica, un management. Al festival di Montreux negli anni ‘90 c’era Quincy Jones a vedere il concerto che ha detto: ma davvero siete italiani?
Hai condiviso di recente sulla tua pagina facebook un tuo brano del 1996 “Fango e Stelle”. Nel post dici testualmente: gente che scattava fotografie e chiedeva autografi ai funerali di Mia Martini. Sei stato tuo malgrado profeta della de- generazione attuale: oggi sembra che tutto sia deflagrato all’ennesima potenza con gli smartphone pronti a immortalare tutto e tutti. Qual è il tuo pensiero?
Forse ho individuato certi problemi con un po’ di anticipo. Nel ‘78 per esempio io avevo già capito che c’era un rapporto malato tra il fan e la rockstar e scrissi “Superstar” in cui il fan uccide la sua star preferita. Due anni dopo Chapman ammazzava John Lennon. In “Fango è stelle” racconto questa cosa dei funerali spettacolo che poi sono diventati una cosa comune.
Arriviamo al nostro Gabriele Masala. Sei stato autore dei testi del suo album. Come è nata questa collaborazione con l’artista sassarese? Siamo molto curiosi.
Ci siamo conosciuti ad un mio concerto, abbiamo fraternizzato poi lui una volta mi chiese se potesse musicare una mia poesia “Soldatini” che figura in un album precedentemente di Gabriele. Poi siamo rimasti in contatto ed è nata un’amicizia. Lui è molto bravo a scrivere musica sui testi e allora alla fine gli ho dato un numero sufficiente di testi per fare un album.
Domanda di alleggerimento.
Qualcuno ha detto che si può cambiare genere musicale, religione moglie o marito ma non la squadra del cuore… è nota la tua passione per i colori dell’Inter.
Ma sì, è l’unica cosa che nella vita non si può cambiare. I nostri protagonisti che andiamo a tifare possono anche cambiare la squadra, anzi ormai la cambiano sempre più spesso, mentre un tifoso resta tifoso della propria squadra del cuore.
Una domanda che facciamo a tutti: cos’è per te la felicità?
Una domanda da un milione di dollari. La felicità è avere dei progetti e lavorare per portarli a termine. Poi la vita non va esattamente come vorresti… C’era chi diceva che il viaggio è più importante dell’arrivo, per cui sapere che stai lavorando per delle cose in cui credi è motivo di felicità. Fra 10 anni, se mi vedo, mi vedo su di un palco.