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L’insediamento dell’industria chimica in Sardegna/5
Quarant’anni di professione, trentadue dei quali tra Videolina e L’Unione Sarda, mi hanno fatto conoscere una parte rilevante della storia della nostra isola che ha avuto e ancora oggi ha ripercussioni negative sullo sviluppo dell’occupazione e sulla crisi delle industrie, non solo quella chimica…
Il progetto che avrebbe dovuto trasformare la Sardegna in un’isola felice, con i conti a posto e pochi disoccupati, è nato nel 1962 quando il Parlamento, governo Fanfani, approvò il primo piano di Rinascita della Regione.
La legge n. 588 metteva a disposizione dell’ente regionale ingenti finanziamenti pubblici per l’industrializzazione della Sardegna. Nacquero prima i due poli petrolchimici di Porto Torres e Sarroch, poi, intorno agli anni ’70, quello di Ottana. L’intero progetto di industrializzazione era nato anche su sollecitazione della Commissione d’inchiesta parlamentare sul banditismo secondo cui la criminalità si poteva sconfiggere solo creando migliaia di nuovi posti di lavoro.
Era in realtà un assunto di comodo per la politica, un alibi per giustificare una scelta scellerata. La chimica sbarcata da noi non aveva una sola industria manufatturiera. Tutti i prodotti usciti dal petrolchimico venivano trasferiti a industrie della penisola. Mancava insomma la garanzia più importante di solidità di un’azienda: il ciclo continuo, cioè la produzione della materia prima e la sua trasformazione in loco. Ovvero, l’industria manifatturiera.
Nel caso di Ottana il gruppo politico più attivo e determinato nel sostenere l’industria chimica fu quello nuorese di Forze Nuove. Il leader era Ariuccio Carta e con lui i consiglieri regionali Angelo Rojch, Nino Carrus, Gonario Gianoglio oltre ad esponenti minori. C’era un’urgenza straordinaria di uscire dalla crisi e straordinari dovevano essere gli interventi per modificare la grave situazione economica in cui versava l’isola. Ancora oggi viene da chiedersi se non ci fossero davvero soluzioni alternative all’industria dei veleni che ha avuto, e ancora ha, effetti disastrosi sul nostro ambiente e conseguenze pesanti sulla salute di tanti lavoratori.
Nel gennaio del 2020 è stata diffusa la quinta edizione del rapporto Sentieri, una indagine condotta da diversi enti, tra cui l’Isde e l’Istituto superiore di Sanità, sullo stato e il rapporto ambiente-tumori nell’area di Sassari e Porto Torres. Un’indagine complessa e lunghissima, con un’osservazione che ha messo insieme otto anni di dati, dal 2006 al 2013. “Per la prima volta Sentieri ha valutato anche lo stato di salute di bambini e adolescenti” è scritto nel rapporto. Tra Sassari e Porto Torres, nell’intervallo di tempo oggetto dell’indagine, “si sono registrati 77 casi di tumori maligni tra 0 e 29 anni. Di questi, 17 riguardano malati in età pediatrica (sino a 14 anni)”. Tra le patologie più diffuse è segnalata “l’incidenza della leucemia linfoide che risulta circa tre volte più elevata rispetto al riferimento se si considera che i cinque casi censiti hanno colpito femmine”.
Sempre alla voce “Incidenza oncologica” viene descritto anche “un eccesso di linfomi nella classe di età tra uno e quattro anni”. Ancora: tra i 20 e 29 anni “si segnala un eccesso di linfomi non Hodgkin“ di cui “quattro casi risultano nella sottoclasse 20-24 anni e otto nel complesso 0-24 anni”. Valori fuori norma anche per “i tumori maligni e non maligni del sistema nervoso centrale nel complesso delle età analizzate, tra 0 e 29 anni”. Tra Sassari e Porto Torres infine è stato registrato “un eccesso sistematico delle malattie respiratorie acute“. Il rapporto si conclude con una raccomandazione, quasi un appello, destinata agli enti competenti: “Sono doverosi e non differibili gli interventi di risanamento ambientale”. Quello che Porto Torres attende da più di dieci anni.
Dall’attualità torniamo alla storia. Un piccolo, battagliero giornale, Sassari Sera, ha vissuto quegli anni di monopolio della stampa sarda esercitando una costante azione di denuncia contro lo strapotere dei petrolieri sostenuti da quella classe politica che aveva scelto l’industria chimica per poter accedere ai cospicui fondi della legge 588. Sostenitore convinto di quella scelta fu il gruppo dei “giovani turchi” che nel 1956 aveva cacciato i vecchi padroni della Dc sassarese. Pietrino Soddu era uno degli esponenti di spicco del gruppo. Apparteneva alla corrente morotea e all’epoca era presidente della giunta regionale, cioé l’ente che finanziò il primo piano di rinascita sacrificando all’industria chimica l’ambiente e la vocazione agro pastorale dell’isola. Della nuova Dc facevano parte anche Francesco Cossiga, Paolo Dettori , Beppe Pisanu e Piero Are.
Quando nel 1970 cominciò ad intravvedersi la crisi della chimica Pino Careddu scrisse su Sassari Sera: “Il gioco è fatto. Il ciclo si chiude. Affoghiamo nel petrolio e con noi la libertà di stampa e l’intera Regione”. Aveva ragione. Nel 1974 la magistratura romana aprirà un’inchiesta a carico di Rovelli per falso in bilancio e truffa ai danni dello Stato. Accuse relative al sistema delle matrioske introdotto dal padrone della Sir per drenare quantità enormi di denaro da enti pubblici e privati. Come? Frammentando le aziende e riducendole alle dimensioni richieste per accedere ai finanziamenti a tasso agevolato e a fondo perduto che i vari enti erogavano per favorire l’industrializzazione del Mezzogiorno.
Quell’inchiesta significò l’inizio della fine dell’impero di Nino Rovelli. La Società italiana resine quando sbarcò in Sardegna era una piccola azienda con 22 miliardi di fatturato. Dieci anni dopo aveva raggiunto i 172 miliardi di giro d’ affari, nel 1975 il fatturato superava i 1000 miliardi ma i debiti della società erano più del doppio di questa cifra. Un particolare che non era sfuggito al giudice Luciano Infelisi in possesso di mille segreti che qualcuno gli aveva gentilmente fatto avere per far fuori Rovelli e favorire altri grandi gruppi petroliferi. Finirono sotto inchiesta anche i vertici di Bankitalia, tra cui il governatore Paolo Baffi e il suo vice Mario Sarcinelli, quest’ultimo finì in carcere. Poi, agli inizi degli anni Ottanta, l’inchiesta penale si sgonfiò e tutti gli imputati, Rovelli incluso, furono prosciolti.
Intanto la Sir era diventata di fatto proprietà dei propri creditori. Nino Rovelli, il cui gruppo era crollato sotto i debiti nel 1980, aveva fatto causa all’Istituto Mobiliare Italiano (Imi) accusandolo di aver determinato il fallimento della Sir negandogli un credito che invece gli era dovuto sulla base di vari accordi contrattuali. L’ex padrone della Sir chiese un risarcimento di 2 mila miliardi di lire. Nel novembre del 1994 la Cassazione diede ragione agli eredi di Rovelli (morto nel dicembre 1990), condannando l’Imi a pagare 972 miliardi di lire.