Serie C – Va bene così, Torres! Fermata l’Entella a Chiavari 1-1

Colonia Penale di Tramariglio, Alghero, 22 gennaio 1960
Giuseppe Tomasiello, agente di custodia, ed Edoardo Corsi, detenuto, come ogni mattina indossano le proprie divise.
Camicia di cotone, camiciola di lana a maniche lunghe, pantaloni grigio verde, scarponi di cuoio nero, berretto dell’uniforme degli Agenti di Custodia per Tomasiello e maglia di lana, pantaloni e mutande lunghe matricola 4619 appartenenti all’Amministrazione Carceraria per Corsi.
Se un delitto può non avere movente ma non può non avere un passato, quello del suo autore, basta, il passato di Edoardo Corsi, triestino biondo con un occhio di vetro, a spiegare quello che sta per accadere? Chi era, Corsi?
Un autentico delinquente nel quale la violenza innata, l’intolleranza per qualunque forma di disciplina o legge, l’edonismo, l’arroganza, il mendacio saturano la sua personalità soffocandone ogni espressione di umanità, si legge a pagina 14 della perizia presentata il 18 gennaio 1962 dal Professor Annibale Rovasio.
Ancora due anni e avrebbe finito di scontare una breve condanna per quei furti, iniziati da ragazzino e continuati per tutta la vita tra scuole, gioiellerie, e chiese. Rubava perché era più semplice che lavorare, per non avere capi né regole.
Scontata la pena, diceva di voler raggiungere il padre in Australia. In realtà a scontare la pena non ci pensava neanche, il suo obiettivo era sempre evadere e ci aveva anche provato, alla Gorgona. Quella volta, la guardia, l’aveva solo stordita. La libertà aveva la forma di una zattera, l’imprevisto quella del vento contrario. Venne ripreso: il sogno gli si sgretolò tra le mani mentre i ferri gliele bloccavano ancora una volta.
Trasferito a Tramariglio, inizia a lavorare come elettricista. Consegnato, cioè con la supervisione di un agente, perché soggetto pericoloso.
Carceri Giudiziarie di Sassari, 27 gennaio 1960, h 10.30
Corsi risponde alle domande del Procuratore della Repubblica, Alfonso Crispo.
Il 22 corrente verso le 7.30 uscii dalla centrale di Tramariglio insieme alla guardia Tomasiello e con il camion fummo accompagnati al bivio di Porticciolo e quindi ci dirigemmo alla cabina elettrica in località Prigionette. Eseguii il mio lavoro e nel rientrare ci fermammo per riposarci. Mentre eravamo seduti al Tomasiello domandai che ora fosse ed egli mi disse che erano le 11.10. Mi alzai e gli dissi di andare a mangiare ed egli mi rispose testuale di non rompergli il cazzo. Iniziammo a litigare. Non so, non ricordo cosa avvenne dopo. Sono confuso.
Quello che accadde dopo è una serie di martellate, almeno sei e più di dieci, sulla testa di Tomasiello. Una mazzetta da mezzo chilo che si alza e si abbassa sul giovane agente, dall’alto verso il basso, da dietro, mentre, indifeso e distratto, era seduto. E ancora, ferite sulle mani, sollevate nel tentativo di ripararsi.
Forse Corsi si ricorda di quei soldi visti giorni prima in un cassetto nella sala convegni mentre vi lavorava e un attimo di pausa, lo raccontano il berretto di Tomasiello trovato a terra integro e pulito e una tabacchiera e una sigaretta non completata, diventa un’occasione.
Chiudiamo il fascicolo, usciamo dall’Archivio di Stato di Sassari. A volte è impossibile riempire i vuoti tra un’informazione e l’altra, il tempo crea voragini che ingoiano tutto: il mai scritto, perché mai raccontato. Ma a volte la memoria la si può acciuffare, i vuoti si possono colmare, si può scrivere, perché c’è chi racconta.
Alghero, agosto 2021.
Giuseppe Pisoni, Peppino, ha 84 anni. Quinto di nove figli, a Tramariglio faceva la guardia a cavallo.
La nevicata del ’56 ci rovinò, mi dice nella sua casa algherese dove vive con la moglie (abbiamo festeggiato i cinquanta anni di matrimonio a Tramariglio) e un gatto, davati a un liquore al finocchietto preparato da lui. Noi eravavamo contadini, avevamo campi, carciofaie, bestiame. Perdemmo tutto così decisi di arruolarmi. Feci la scuola a Cairo Montenotte, la stessa di Tomasiello ma non ci incontrammo perché lui finì prima del mio arrivo. Non solo era un ottimo agente, ma era una persona buona. Con lui spesso facevo il turno di notte, lui era attrezzato con il suo zainetto. Aveva il fornellino, preparava il caffè per tutti noi del turno. Era generoso. La notte prima dell’omicidio, gli vinsi un caffè al biliardino. Fu l’ultima volta che lo vidi, lo salutai dicendogli che l’indomani avrei riscosso quel caffè. Quando il giorno dopo, era pomeriggio, saranno state le 15.30, si sparse la voce che non era rientrato, io avevo finito il mio giro e stavo riportando il mio cavallo nella stalla. Appena capii che era uscito con Corsi con un collega uscii subito a cercarlo. Ora impiegherei tre giorni per fare quella strada, ma allora ero giovane, mi arrampicai. Sentii un rantolo, lo trovai a terra in una scarpata, la testa fracassata. Per terra c’era una sigaretta non completata. Lui non aveva più la pistola. Sparai tre colpi in aria per dare l’allarme. Caricai il mio amico Tomasiello sulle spalle. Pesava. Cercavo di non fargli altro male. Ancora oggi sento il suo braccio aggrappato a me. Non so se era un riflesso, non so se in qualche modo lui sapeva che ero io che stavo facendo l’impossibile per salvarlo. Quel braccio lo sento ancora oggi. Nell’immediato nessuno mi ha aiutato a superare quel momento, il lavoro mi distraeva. Anni dopo, ero già sposato e avevo i miei quattro figli, ho sognato che si tuffava e non risaliva più, allora mi sono tuffato anche io, ma lui era avvolto dalle alghe che lo tiravano giù. Non riuscivo a fare nulla. Le alghe tiravano, tiravano…
Chissà se sapeva, ripete. Raggiungemmo la strada, dalla Centrale era arrivato il Direttore con la Seicento. Il mio amico Tomasiello venne portato all’ospedale Santa Chiara di Alghero, poi lei sa come è andata.
Lo so. È nel fascicolo.
Tre, i giorni di latitanza di Corsi che voleva arrivare a Porto Torres e imbarcarsi per il Continente.
Nascosto in un canneto nell’agro di Sant’Orsola, si sente sicuro. Ha la Beretta di Tomasiello e quelle quasi 200.000 lire viste in centrale e tornato a rubare nottetempo. Si è anche cambiato rubando una camicia per liberarsi della casacca da detenuto. Non sa di essere diventato un assassino. E non sa che i proprietari di quel terreno sono lì. Sentono dei rumori. Si avvicinano. Riconoscono i pantaloni da carcerato. È l’evaso di Tramariglio. Corsi prova a tirare fuori la pistola, offre loro tutto il denaro che ha.
Corsi entra nel carcere di Sassari poco più tardi.
Ogni sua parola su quel giorno alle Prigionette viene smentita. Dalle tracce di sangue, dalla direzione e dalla violenza dei colpi, dalla parte presa di mira, dal carattere di Tomasiello che mai si sarebbe rivolto a qualcuno con quei termini, dalle lesioni alle braccia, semplici graffiature dovute alle sterpaglie e non a una mai avvenuta colluttazione. E da quei sogni di evasione detti a voce troppo alta per troppe volte.
Tribunale di Sassari, 14 aprile 1960
Edoardo Corsi è condannato all’ergastolo.
All’agente Giuseppe Tomasiello, nel 2013, sono stati intitolati la Casa di Reclusione di Alghero e il Museo della memoria carceraria di Tramariglio.