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La Sardegna? Alcuni poeti dell’antichità non l’amavano affatto!
La Sardegna, per quanto possa essere considerata maestosa, nella sua semplicità e tradizione, non sempre è stata riconosciuta così da autori di nota importanza, risalenti al periodo classico
I motivi erano numerosi, dalle musiche e costumi, agli affari di guerra e ai comportamenti della popolazione sarda stessa.
Nei testi di Orazio e Livio si possono cogliere diverse citazioni rivolte ai sardi, nelle quali vi si trova un pretesto per criticare la nostra terra e la nostra cultura, mentre con Cicerone si percepisce un vero e proprio accanimento nei confronti dei sardi.
Orazio, è stato un poeta romano vissuto nel I secolo avanti Cristo, noto soprattutto per le sue satire e le sue odi, caratterizzate da un’eleganza e una profondità di pensiero che lo resero uno dei più importanti autori della letteratura.
È proprio nelle satire che troviamo critiche sul cantante sardo Tigellio, vissuto anch’esso nel I secolo. Lo descrive, nella Satira III, come ‘un bastian contrario’ e nei versi seguenti, ne parla dimostrando la poca stima che provava nei suoi confronti: “tutti i cantanti hanno questo difetto: che se sono pregati non cantano ma quando cominciano spontaneamente non la smettono più. E questo è il difetto che aveva il sardo Tigellio che non riusciva a far cantare neppure a Cesare”).
Inoltre, descrive il corteo in occasione della sua morte, avvenuta tra il 40 a.C e il 39 a.C., come uno spettacolo che oscilla tra il malinconico e il bizzarro, esprimendosi con i seguenti versi: “nessun attrice di flauto, i ciarlatani che vendono rimedi, i mendicanti, le ballerine e i buffoni, tutta questa gente è messa e addolorata per la morte del cantante Tigellio; ciò è naturale poiché egli fu generoso”).
Tigellio era quindi illustrato come amante del lusso, nonostante si trovasse poi spesso senza uno spicciolo in tasca. Tuttavia, parte degli studiosi, gli riconosce un grande merito: Tigellio riuscì ad animare la corte di Cesare e a far conoscere ai romani il canto a tenore tipico della Sardegna.
Malgrado non ci sia arrivata nessuna composizione, è ritenuto probabile che fosse solito farsi accompagnare dalla musica delle launeddas.
Livio, invece, è considerato uno dei più importanti storici dell’antica Roma, nato nel 59 o 64 a.C.
Egli segna la storia romana dell’epoca, con la sua opera “Ab Urbe Condita Libri”, ovvero “ storie dalla fondazione della città”, fondamentale per comprendere la cultura del posto.
L’autore latino, descrisse i sardi nominandoli con vari termini: come ad esempio l’ espressione “facile vinci”, intendendo che fossero un popolo facile da battere, questa accusa fu successivamente sostituita con un ulteriore appellativo, ovvero “ gente ne nunc quidem ogni parte pacata “ (popolazione che non è ancora del tutto pacificata).
In quel periodo le legioni romane volevano sottomettere i sardi, i quali resistettero a lungo dalla dominazione romana, dove Livio stesso, spazientito, inviò delle truppe verso i sardi, fino a quando il console Marco Pomponio riuscì a sconfiggere questo popolo che non mollava.
Inoltre Livio scrisse “Pellitos Sardos”, che letteralmente significa “Sardi vestiti di pelli”, con lo scopo di far intendere che tutti i sardi vestivano esclusivamente di pelliccia di capra o di pecora.
Per quanto riguarda Cicerone, è stato un famoso politico, oratore, filosofo e scrittore romano vissuto nel I secolo a.C. È considerato uno dei più grandi oratori e pensatori della storia romana.
Il fondamento, per quanto riguarda il suo astio nei confronti del nostro popolo, era principalmente il fatto che ritenesse che discendessero da un incrocio di sangue africano e punico, condotti in Sardegna come un popolo di cui sbarazzarsi;
inoltre, a causa di una discordia avvenuta in tribunale:
Marco Emilio Scauro, figliastro di Silla, ovvero il governatore dell’isola, era accusato di tre crimini: aver avvelenato un ricco cittadino di Nora, aver rapito la moglie di un altro uomo e aver imposto una tassa straordinaria in aggiunta a quella regolare.
L’avvocato dell’accusa fu scelto dai sardi, l’oratore Publio Valerio Triario, che peccando di insolenza, decise di ignorare il consiglio di tornare in Sardegna a cercare delle prove per reggere le accuse contro l’imputato e che sarebbero bastate le testimonianze di centoventi sardi.
A Cicerone, l’avvocato della difesa, bastarono pochi secondi per smontare le accuse riportate da Triario, dopo aver denigrato i sardi con queste parole, tratte dal testo “PRO M. AEMILIO SCAURO ORATIO” di Cicerone: “ sono venuti dalla Sardegna convinti di intimorire e persuadere con il loro numero ma non sanno nemmeno parlare la lingua latina e sono vestiti di pelli. Ladroni con la mastruca, affidabili e disonesti, la cui validità è così grande da indurre a credere che la libertà distingue dalla servitù sopra la possibilità di mentire.”
Nonostante l’abilità oratoria di Cicerone, Triario vinse il processo per via della protezione data da Pompeo che gli permise di corrompere molto facilmente i giudici. Scauro fu costretto all’esilio.
Chi invece, non si limitò a disprezzare quest’isola, era il poeta fiorentino Dante Alighieri, vissuto dal 1265 e il 1321, stimato soprattutto per aver scritto la ‘Divina Commedia’ durante il suo esilio per via delle sue posizioni politiche. Quest’opera è una rappresentazione simbolica del viaggio dell’anima verso Dio e rappresenta anche una riflessione sulla politica, la società e la teologia del tempo.
Alcuni studiosi sostengono che Dante sia stato in Sardegna, una prima volta, durante il periodo di reggenza del giudicato di Gallura da parte di Nino Visconti, tra l’altro amico di Dante, citato anche il purgatorio, mentre una seconda volta durante il suo esilio nei territori del Logudoro.
Durante il suo soggiorno, il poeta si sentì molto vicino agli usi, costumi e tradizioni del popolo sardo, tanto da citare alcuni riferimenti nelle sue opere.
Nella ‘Divina Commedia’, possiamo trovarne sia nell’Inferno che nel Purgatorio.
Nel XXII Canto dell’Inferno, Dante spiega come nella V Bolgia dell’VIII Cerchio dell’Inferno, siano presenti i ‘barattieri’, ovvero coloro che erano colpevoli di aver usato il loro cariche pubbliche per ricavare agevolazioni attraverso permessi e privilegi.
Tra i barattieri sono presenti due sardi: Frate Gomita e Michele Zanche.
Mentre, nel XXVI Canto dell’Inferno, Dante cita con i seguenti versi la Sardegna, errando però sulla sua posizione geografica:
‘l’un lito e l’altro vidi infin la Spagna
fin nel Morocco e l’isola de’ sardi
e l’altre che quel mare intorno bagna’.
Per quanto riguarda il Purgatorio, Dante parla nel Canto XXIII, nei versi 94-96, di come le donne barbaricine siano prive di pudore e volgari, dato dal fatto che le donne sarde erano solite a circolare a seno scoperto.
Alla luce di ciò, possiamo osservare come sin dall’ età romana, ci fosse un disprezzo da parte di un’élite aristocratica nei confronti dei sardi, dato soprattutto dai diversi modi e atteggiamenti che avevano gli abitanti dell’isola rispetto a loro. Si evince quindi, anche in questo caso, la scarsa considerazione che i Romani avevano nei confronti di tutte le popolazioni, con le loro annesse culture, diverse dalla loro. Possiamo infatti riassumere questo sentimento nei nostri confronti alla stregua di quello che avevano per tutte quelle popolazioni da loro definite “barbare”.