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La Grotta della Vipera, la tomba della Cagliari romana dedicata all’amore
“Senza vantarmi posso dire che io sono stato quello che nel 1822 ha impedito la sua totale distruzione dagli impresari della strada Reale.”
(Alberto della Marmora – Viaggio in Sardegna)
Alle pendici del colle di Tuvixeddu, si trova uno dei tesori di epoca romana della città di Cagliari, simbolo di un intero quartiere: la Grotta della vipera.
Sapientemente modellata nella roccia da una cavità preesistente, la Grotta della vipera è la tomba monumentale dedicata alla matrona romana Atilia Pomptilla.
Questo ipogeo funerario fa parte di quelle poche testimonianze ancora visibili della Cagliari romana.
Inquadrato nell’arco di tempo che va dalla seconda metà del I secolo d.C. fino alla prima metà del II d.C., è una delle tombe romane più famose del capoluogo sardo non solo per la sua bellezza artistica ma anche per la struggente storia d’amore che ha permeato questi luoghi.
L’imponente entrata monumentale si affaccia lungo il viale Sant’Avendrace, all’epoca la via che collegava Karales a Turris Libisonis (odierna Porto Torres), e riproduce quella di un tempio in antis, cioè una tipologia di tempio classico caratterizzata dai muri laterali prolungati fino alla facciata (creando un vestibolo aperto detto pronao) che formano così due pilastri di sostegno laterali con al centro due colonne.
Le ante del pronao, le colonne e i pilastri sono andati perduti. È stato risparmiato solo un capitello in stile ionico, con una corona di foglie di acanto alla base.
Nell’architrave è incisa una scritta che riporta la dedica e il nome alla defunta: <<Monumento edificato e dedicato alla sacra memoria/della benedetta Atilia Pomptilla, figlia di Lucius/Il marito (pose) a proprie spese>>
La particolarità del frontone è rappresentata dalle decorazioni floreali ma soprattutto dagli elementi che poi consacrarono il nome alla tomba nell’immaginario collettivo: due serpenti che dall’esterno dell’attico si protendono verso il timpano.
Il significato dei serpenti non è certo ed è aperto a tre diverse interpretazioni: simbolo della reciproca fedeltà coniugale dei due sposi, raffigurazione delle divinità Iside e Osiride oppure un riferimento al mito di Cadmo e Armonia.
La parte interna dell’ipogeo è costituito da due camere funerarie da cui si accede mediante due cunicoli e, nella parte alta del pronaos, è ancora visibile un colombaio per le urne.
L’apoteosi dell’amore imperituro
Nata a Roma da una famiglia gentilizia e illustre (gens Atilia), Atilia Pomptilla seguì il marito Lucio Cassio Filippo, anch’egli un nobile e discendente della gens Cassia, colpito dall’esilio in Sardegna che Nerone pronunciò per motivi politici nei confronti del padre di costui, Lucio Cassio Longino.
Correva l’anno 65 d.C., sappiamo che successivamente Cassio Longino venne richiamato da Vespasiano e si spense nella sua Roma.
“Figlia dell’Urbe seguendo fin qui le dolorose vicende/dello sfortunato marito, io, Atilia, per amore di Filippo/qui mi sono consacrata ai ben accetti/e a me che pregavo che la sua vita pagassero con la mia, fu inevitabile/che gli dèi dessero ascolto e da ciò abbiamo guadagnato fama.”
Al loro arrivo a Karales, Filippo contrasse una forma molto aggressiva di malaria.
Le sue condizioni erano così gravi da temere per la sua vita.
Atilia vegliò il suo adorato sposo giorno e notte, rifiutando il cibo e pregando gli dèi affinché salvassero il marito e prendessero la sua vita al posto di quella dello sposo tanto amato.
Gli dèi, commossi dal coraggio e dalla amorevole devozione della donna, accolsero la sua preghiera e mentre Filippo migliorò, ella iniziò a spegnersi a poco a poco.
La coppia era sposata già da 42 anni quando la sua dolce compagna di vita morì.
Le iscrizioni presenti nella tomba sono la celebrazione di Atilia come donna, sposa e madre e dello struggente dolore del marito per la sua perdita.
Vi sono 16 epigrammi metrici, di cui 9 in latino e 7 in greco, che narrano poeticamente la storia e il sentimento d’amore che legava Atilia e Filippo e persiste appassionato anche dopo la loro morte.
Secondo una versione della leggenda, Filippo, devastato dal dolore per la sua Atilia, bandì una gara poetica per componimenti in greco e latino al fine di adornare la tomba della sua diletta con dolcissime poesie per celebrare e commemorare il sacrificio dalla moglie.
Un’altra versione afferma che l’autore di queste liriche poetiche fosse lo stesso Filippo.
“Che le tue ceneri, Pomptilla, fecondate dalla rugiada si trasformino in gigli ed in verde fogliame dove sbocceranno la rosa, il profumato zafferano e il semprevivo amaranto. Possa tu ai nostri occhi divenire il fiore della bianca primavera, affinché come Narciso e Giacinto, questo motivo di lacrime eterne, un fiore trasmetta il tuo nome alle venture generazioni.
Allorché Filippo già sentiva la sua anima abbandonare le sue spoglie mortali, e che già le sue labbra si avvicinavano alle acque del Lete, tu, o Pomptilla, ti sacrificavi per uno sposo spirante, e riscattasti la sua anima col prezzo della tua morte. Così gli Dei hanno spezzato questo dolce legame.
Ma se Pomptilla si è sacrificata per salvare uno sposo teneramente amato, Filippo, vivendo suo malgrado, brama con fervente ardore di veder presto riunita la sua anima a quella della più tenera delle spose.”
La grotta nel tempo
Si hanno le prime testimonianze del suo improprio utilizzo già dal 1400 col nome di Spelonca del Re, Grotta di Ercole, Crypta serpentum, Cova de la serp, Cresia de is gentilis, Grutta de sa pibera.
L’intera struttura sepolcrale è stata severamente compromessa a causa degli usi (mutilazioni) a cui la tomba è stata sottoposta nei secoli: secondi gli studiosi che si sono succeduti nel corso degli ultimi due secoli, è attestato che nel 1536 la tomba venisse sfruttata per scopi agricoli (in particolare per l’innesto di ulivi e olivastri) oltre che per le estrazioni di pietra perpetrate fino all’Ottocento.
È merito del tempestivo intervento del Generale Alberto della Marmora se ancora oggi possiamo ammirare ciò che resta del monumento oggetto di saccheggi e incuria.
Infatti, nel 1822 durante i lavori di spianamento per la costruzione della Cagliari- Sassari nel viale Sant’Avendrace, il generale interruppe gli operai che avevano già piazzato le mine nei pressi della grotta e poco prima avevano già devastato la tomba attigua di T. Vinius Beryllus, di cui oggi possiamo ammirare soltanto i resti delle nicchie che un tempo dovevano rappresentare il fondo della camera funeraria.
Per preservare questi due siti, Alberto della Marmora decise di installare un cancello per impedire incursioni e ulteriori devastazioni dell’area già martoriata e mutilata, sottraendola alla selvaggia urbanizzazione dell’Ottocento.
Questo salvataggio in extremis permise a noi e ad altri studiosi dell’epoca fra cui Spano, Elena, Crespi e lo stesso la Marmora di poter studiare la tomba e i suoi affascinanti versi incisi sulla roccia.
Nel 1922 entrò nella lista degli edifici monumentali di Cagliari redatta del Ministero della Pubblica istruzione, rimarcando così l’importanza che le spettava e affermandosi a tutti gli effetti il simbolo di un intero quartiere.
Nel 1992 finalmente si apre il sito ai numerosi visitatori incuriositi dalle misteriose meraviglie che questo impenetrabile mausoleo custodiva e che negli anni è stato oggetto di popolari leggende.
Una credenza popolare indica il sepolcro come il luogo nel quale vi è nascosto un tesoro in monete d’oro.
Stando alla leggenda, nella più remota delle due camere funebri vi sono due enormi giare in ceramica, una custodiva monete d’oro e gioielli, l’altra conteneva la malvagia musca macedda, un terrificante insetto che con la sua letale e dolorosa puntura causava la morte di chiunque si trovasse disgraziatamente nelle vicinanze.
Il restauro
Lo splendido sito archeologico è stato riaperto al pubblico a fine 2019 dopo più di 5 anni di lavori per il restauro, il consolidamento e la messa in sicurezza del costone roccioso.
I lavori alla Grotta della vipera si inquadrano del più ampio progetto di valorizzazione della necropoli del colle di Tuvixeddu.
Il candido calcare in cui è scavato l’ipogeo funerario è un tipo di roccia particolarmente tenera e soffre particolarmente l’usura.
Infatti, all’inizio dei lavori l’intera struttura era vittima del degrado provocato dall’azione combinata di agenti atmosferici, deiezioni di uccelli e pipistrelli, inquinamento urbano e piante infestanti.
Il costo delle operazioni si aggira intorno ai 150mila euro, di cui 80mila solo per il restauro gli ambienti interni.
Per il recupero e la valorizzazione di quest’area sono state utilizzate avanzate tecniche di ripulitura laser per le delicate iscrizioni e le decorazioni, la stuccatura nelle numerose fessure e microfratture, messa in sicurezza del costone roccioso attraverso il fissaggio dei blocchi a rischio di caduta, impacchi con sali inorganici e pulitura meccanica per la rimozione dei depositi e delle concrezioni presenti sulle superfici.
Oggi, anche grazie al Generale della Marmora e ai lavori di restauro possiamo anche noi godere di queste dolcissime iscrizioni che testimoniano l’amore lapidario che restituisce vita e immortalità alla celebre matrona romana.