Sassari – Il 3 e 4 aprile Giornate di Orientamento Universitario 2025

Ho pensato di utilizzare parte del finale del mio Diario per analizzare alcuni aspetti del mondo dell’informazione, come i rapporti tra giornalisti e aziende editoriali, l’attuale stato dell’editoria, in Sardegna in modo particolare, e il suo futuro
Inizio ricordando che credibilità e stima sono due dei requisiti che dovrebbero caratterizzare, sempre, la professione del giornalista. Oggi più di ieri. In passato la formazione professionale era frutto della vita di redazione, dell’insegnamento che i colleghi più autorevoli ed esperti erano in grado di dispensare ai più giovani. Non è più così da anni. L’accesso alle redazioni è interdetto. Le aziende temono che i collaboratori, frequentando anche saltuariamente le sedi di giornali e Tv, possano precostituire le condizioni contrattuali per avviare una causa di lavoro. Timore giustificato. Sono tante le cause che si sono chiuse nei Tribunali con sentenze di condanna a carico delle aziende obbligate finalmente ad assumere redattori precari a vita. Certo, gli editori avrebbero voluto continuare a retribuirli secondo il metodo più seguito: una manciata di euro a pezzo valutato intorno ai dieci euro lordi. E sì, lordi.
Foto di Luisella Planeta Leoni da Pixabay
Il compenso mensile di un collaboratore non comprende rimborsi di alcun genere per costi connessi al lavoro, come le spese telefoniche e quelle per il carburante, tanto meno il diritto al versamento di contributi previdenziali da parte dell’azienda. Sono sempre stato dalla parte dei giovani. Se lavorano bene, dimostrano volontà, serietà e passione qualche diritto bisognerebbe riconoscerglielo. Altrimenti dovremmo definire questo tipo di rapporti precari una forma inaccettabile di sfruttamento, purtroppo molto diffuso nei giornali, nelle Tv e sul Web. Conosco tanti casi di ingiustizia perpetrati nei confronti di giornalisti pubblicisti che hanno collaborato per anni a giornali e televisioni svolgendo di fatto il lavoro di un redattore professionista. In cambio non hanno ottenuto alcun riconoscimento economico tanto meno previdenziale. E’ il motivo per cui da capo servizio di Videolina avevo rifiutato la proposta del mio direttore di prendere uno stagista in redazione. Ne avevo già avuto altri ma prima mi era consentito di insegnargli le basi del lavoro giornalistico e, nel caso di ragazzi dotati, ero autorizzato a fargli realizzare anche qualche servizio per il Tg. La novità a me sgradita era giunta alcuni anni prima del mio pensionamento: gli stagisti, mi avvertirono da Cagliari, non possono usare i pc né scrivere pezzi. No, non ci sto, ho risposto al direttore, è una presa in giro per questi ragazzi, e non l’accetto. Non posso tradire le attese di un giovane che ha già scelto la strada del giornalismo. Nel caso che riferisco in particolare si trattava di uno studente che frequentava il corso di giornalismo all’Università. Non tornai indietro. La convenzione con la scuola di giornalismo non venne più rinnovata.
“Gli editori hanno sempre le lacrime agli occhi” mi ha detto di recente un collega. E aveva ragione. L’ultimo esempio è di qualche settimana fa. Il Corriere della Sera ha presentato un piano di “riorganizzazione per lo sviluppo digitale” che prevede il prepensionamento di 75 giornalisti e la cassa integrazione per 24 mesi. Un’urgenza motivata da un’azienda in rosso? Niente affatto. “Solo nel 2018 – sostiene il Cdr – l’utile di Rcs Mediagroup è stato di 85 milioni di euro e l’editore Cairo ha erogato premi ai dirigenti di prima fascia, distribuito dividendi a sé e ai suoi azionisti per 31 milioni. Quest’anno Cairo, accogliendo le richieste del Cdr, ha rinunciato a distribuire dividendi per investire gli utili in azienda riducendo così i sacrifici che i giornalisti, e non solo, avrebbero dovuto affrontare. Risolta positivamente una vertenza ecco aprirsene un’altra. La Repubblica, con La Stampa e L’Espresso, sono passati al gruppo Exor, cassaforte della famiglia Agnelli. Non a caso John Elkan ha assunto il ruolo di editore e come primo atto ha licenziato il direttore di Repubblica, Carlo Verdelli, da tempo minacciato e sotto scorta. Un modo come un altro per lanciare un messaggio ai suoi nuovi dipendenti: qui comando io.
Finite le procedure amministrative relative a una vendita nell’ordine dei 100 milioni il nuovo gruppo comincerà a mettere mano ai problemi di ciascuna testata. La Repubblica un mese fa aveva annunciato un piano che prevedeva il taglio di 150 dipendenti. Andrà avanti così o verrà ridimensionato? Nel frattempo è entrata in crisi la Gazzetta dello sport. Con l’arrivo del coronavirus e il blocco di tutte le attività sportive, compresi i campionati delle varie specialità, l’interesse dei lettori per il giornale rosa è crollato. E’ stata ridotta la foliazione, messi in ferie un buon numero di giornalisti, ridotta la turnazione domenicale che garantisce ai giornalisti una retribuzione ben più cospicua rispetto alle altre giornate lavorative. Il comitato di redazione ha respinto la proposta. Le trattative sindacato-azienda dovrebbero cominciare entro maggio ma si teme l’aggravarsi della crisi del mondo dell’informazione, specie dei giornali.
In Sardegna soffrono anche L’Unione Sarda e La Nuova Sardegna. Il numero delle copie vendute sono calate ancora. Nel mese di febbraio l’Unione ha fatto registrare un calo di 4.824 copie rispetto allo stesso mese dello scorso anno: 28.370 contro le 33.194. Sempre nel mese di febbraio La Nuova ha venduto 25.549 copie contro le 28.537 dello scorso anno e un calo di 2.980 copie. E questo nonostante il patto di non belligeranza stretto tra le due aziende editoriali per dividersi il mercato isolano dell’informazione. L’accordo non è stato indolore per i lavoratori che hanno subito la chiusura della redazione di Sassari dell’Unione e lo “snellimento” di quella cagliaritana. Entrambi i giornali hanno fatto ricorso a numerosi prepensionamenti privandosi anche di ottimi giornalisti. E questo, stando ai dati delle vendite, non ha giovato a nessuno dei due, semmai ha impoverito la qualità dei due quotidiani. Ne valeva la pena?
A fronte degli esuberi ci sono state anche alcune assunzioni, redattori precari da una vita. Troppo poco. Il giornale lo fanno i giornalisti, nessun altro li può sostituire se non a rischio di un ulteriore bagno di sangue nelle vendite. Sono sempre più convinto che il destino dei giovani nel mondo dell’informazione debba essere centrale e il rapporto sindacato-editori debba tornare su un livello di maggiore equilibrio. Da diversi anni a questa parte l’Fnsi ha ceduto su troppi fronti sacrificando agli interessi degli editori molte delle prerogative garantite ai giornalisti dal contratto di lavoro. Chi è oggi il giornalista di una redazione? Una persona totalmente nelle mani di chi ha avuto delega dall’editore di dirigere la redazione, senza sì e senza ma. E i nostri diritti? Scegli, ti dicono, tra la rivendicazione dei tuoi presunti diritti o il trasferimento di settore o il cambio di redazione con vitto e alloggio a tuo carico. E se sei un free lance può capitare di vivere vicende surreali come quella che la giornalista Barbara D’Amico ha raccontato a “Professione reporter”. Circa cinque mesi fa ha lasciato di stucco tutti abbandonando la redazione del blog La nuvola del lavoro, fondato dall’inviato ed editorialista Dario Di Vico e affiliato al “Corriere della Sera”, rifiutando il taglio d’ufficio del 15% del compenso. In precedenza le era già stato tagliato il 25 per cento del compenso. La sua risposta è stata secca: “a queste condizioni non ci sto”. Scatto di reni, orgoglio professionale e personale e vaffanculo a chi l’aveva trattata in modo vergognoso.
Questa è la realtà del nostro mondo. Quanti casi come quello di Barbara D’Amico si contano oggi nelle redazioni dei giornali di tutta Italia? L’Fnsi e gli Ordini regionali provino a promuovere un’indagine conoscitiva. Sono certo che verrebbero fuori cose da delirio. Io questa situazione non l’ho vissuta sulla mia pelle, e come me fortunatamente i miei collaboratori Fausto Spano e Franco Ferrandu, che peraltro con la chiusura della redazione si sono trovati a dover lavorare da casa. Agli “arresti domiciliari”, come ho sempre definito questa condizione di totale isolamento in cui il tuo lavoro si mescola alla tua vita privata, ti chiede perfino di cedergli una parte della tua casa e dei tuoi spazi vitali. Altri colleghi che hanno avuto lunghe esperienze lavorative con me, professionisti con i fiocchi, hanno invece sofferto molto per essere stati esautorati, messi da parte dalla loro azienda editoriale pur essendo fra i migliori in assoluto del loro giornale. Il motivo? Usavano la loro testa rifiutando di portare il cervello all’ammasso. Il risultato è che oggi tutta la categoria ormai, il “quarto potere”, ricordate?, conta più nulla. La qualità del lavoro è precipitata. In ogni settore, dalla Tv al cartaceo, al web. E non è finita, perché della qualità dei giornali non frega più nulla a nessuno. Basta pensare alla quantità industriale di refusi che ogni giorno troviamo sui giornali, all’interno di pezzi ma anche nella titolazione.
Credibilità e stima, dicevo in apertura di questo intervento. Se crediamo in questa professione dobbiamo vedercele riconosciute soprattutto da chi ha rapporti stretti con noi: editori, istituzioni, forze dell’ordine, colleghi. Non è facile. La Tv è il mezzo più veloce, insieme al web, per veicolare le notizie. E’ una presenza fastidiosa per i giornali costretti a dare il giorno dopo le informazioni che il nostro Tg ha già diffuso. Insomma, la nostra presenza non è ancora stata metabolizzata del tutto. Qualcuno ha ancora difficoltà ad accettarla. Questo è un problema che mi sono trovato ad affrontare appena arrivato a Videolina, nel 1982. Durante gli incontri per il saluto e la presentazione ai rappresentanti delle forze dell’ordine mi sono reso conto che nell’ambiente l’informazione coincideva con il quotidiano locale. Un rapporto quasi esclusivo. Le televisioni invece avevano un ruolo marginale. Ci ho riflettuto e quando ho avuto conferma definitiva dell’esistenza di una linea preferenziale tra le forze di polizia e il quotidiano locale, ho rifatto il giro degli uffici. Per dire al questore, ai comandanti dei carabinieri e della guardia di finanza che non condividevo la loro gestione dei rapporti con la stampa. E perché il messaggio giungesse più chiaro, ho precisato di averne informato anche il prefetto. Secondo me eravamo in presenza di una distorsione comportamentale che derivava soprattutto da rapporti e frequentazioni quotidiane tra rappresentanti delle forze dell’ordine e giornalisti che nel tempo si erano consolidati e trasformati in confidenza e amicizia. Ricordo di essermi rivolto a ciascuno di loro con molta franchezza: “Conservate amicizie, rapporti quotidiani e saltuari con chi volete, ma le notizie dovete darle a tutti”. Qualcuno mostrò scarso entusiasmo per le mie richieste. Chi ero per pretendere di cambiare i rapporti con la stampa?
C’è stata una fase della mia attività professionale in cui mi sono trovato a condividere il disagio di tutti i rappresentanti delle testate presenti in città (fatta eccezione per La Nuova) per i rapporti con l’Arma. Il comandante provinciale non era un genio. Avere una notizia era un problema. Chiedere a lui il motivo di questo comportamento era tempo perso. Lo bypassai e chiesi notizie ad un amico: “Non prendetevela con lui, è un brav’uomo. E’ il comandante regionale che ha dato disposizioni su come, quando e quali notizie diffondere”. Informai gli altri colleghi e preparammo un comunicato indirizzato all’Arma e all’Ordine dei giornalisti. L’oggetto era: “Come ripristinare i rapporti di collaborazione tra mass media e Arma dei carabinieri nel Nord Sardegna”. In calce, i nomi e le firme dei rappresentanti di tutte le testate, Rai compresa. Mai nessuno in passato aveva fatto un passo del genere. Dopo qualche giorno mi chiamò il comandante del Reparto Operativo, il Colonnello Giovanni Allucci: “Signor Puggioni, potrebbe fare un salto in caserma? C’è il generale Comandante della Legione che le vorrebbe parlare”. “Motivo?” chiesi. “Non ne so molto, pare una sua lettera di protesta sui rapporti Arma-giornalisti”. La lettera ovviamente era firmata da tutti ma al generale qualcuno aveva indicato me come promotore della protesta. In Caserma mi accompagnarono dal generale. Era il fratello di un alto esponente di Forza Italia che ancora oggi siede in Parlamento. Andò subito al sodo: “Ho ricevuto la sua lettera. E’ un atto formale e formalmente dovrò risponderle”. “Scusi generale, chiariamo una cosa: non si tratta di una questione che riguarda me e lei, ma l’Arma e i giornalisti della provincia di Sassari. Non capisco perché mi abbia chiamato” replicai. “A me sembra, leggendo la lettera, che voi riteniate l’Arma il vostro ufficio stampa. Noi abbiamo regole che dobbiamo rispettare” replicò gelido il generale. “Invece dovremmo essere noi il vostro ufficio stampa, generale? Quello che mette in evidenza le vostre brillanti operazioni garantendovi il consenso dei vertici dell’Arma? Se lei ritiene che il nostro rapporto debba essere questo non c’è motivo per proseguire questa conversazione. La saluto” dissi allungando la mano.
Ero incazzato nero. Il generale capì che eravamo ad un punto di rottura e decise di evitarla: “Senta, mi dica con chiarezza come possiamo ripristinare un rapporto di reciproca soddisfazione” disse il comandante della Legione. “Nella lettera c’è tutto, generale. Ci rimetta in condizioni di lavorare serenamente e con la puntualità necessaria. Riaprite i canali d’informazione”. E così, faticosamente, riuscii a ripristinare i rapporti con i carabinieri. Per uno come me che non ha svolto il servizio militare direi che il confronto con il generale era stato un successo. Mentre lasciavo la caserma, un ufficiale con cui avevo confidenza mi fece una battuta: “I buchi vi tolgono il sonno, eh?”. “Capitano, lei sa cosa è la “sindrome del buco”? Gliela spiego in poche parole. E’ uno stato ansioso di cui soffrono alcuni colleghi (e non parlo solo di Sassari) ed è causato dalla pretesa di avere in esclusiva le notizie di cronaca per paura di prendere un buco. Io non ho queste pretese, non ho mai chiesto notizie in esclusiva ma solo una parità di rapporto con chi svolge il mio stesso lavoro. Mi dia retta, da domani comunicate le notizie con note stampa. Risparmierete tempo e accontenterete tutti. O quasi”. E così fu nonostante i mugugni di qualche collega. In fondo, prendere un buco non è la fine del mondo, salvo non diventi un fatto abituale. Mettiamoci il cuore in pace, non è mai esistito un giornalista che abbia dato buchi senza mai prenderne. E questo perché nella maggior parte dei casi avere una notizia in esclusiva non è frutto di bravura o abilità particolari ma solo del caso. Un esempio. Un amico ti confida di aver visto negli uffici della sua azienda un gruppo di carabinieri e racconta: “Hanno portato via molti documenti, credo ci sia un’inchiesta giudiziaria in corso”. Se tu sei bravo, ti muovi per raccogliere gli ulteriori elementi necessari per fare un servizio ricco di informazioni. Dov’è il problema? Quando è capitato a me di leggere su un giornale una notizia che ignoravo anziché incazzarmi e prendermela con chi l’aveva scritta cercavo innanzitutto conferma della sua fondatezza. Se la trovavo passavo alla ricerca di particolari inediti che mi potessero aiutare a riprenderla dando al lettore o all’ascoltatore la sensazione di leggere o sentire qualcosa di nuovo.
In base alla mia esperienza professionale posso affermare che nella maggior parte dei casi ha prevalso, e tuttora prevale, l’irritazione di chi prendendo un buco si sente derubato di un diritto inalienabile. Una sciocchezza. Quello che conta è svolgere il proprio lavoro nel rispetto del codice deontologico, che regola la nostra professione, e delle persone cui forniamo le notizie.