Sassari – ATP, il biglietto per viaggiare sui bus diventa elettronico
Il batterista degli Emerson, Lake & Palmer pubblica l’autobiografia della band
Luca De Gennaro per “la Stampa”
Carl Palmer suonò in Sardegna due volte: nel 2002 al Teatro Verdi di Sassari in una drum clinic e, nel 2008, a Ozieri da solista. Nel nuovo libro racconta la storia della mitica band inglese ripercorrendo anche il tragico suicidio di Keith Emerson: “Aveva un grave problema a una mano non poteva sopportare di non mettere più le mani sulla tastiera…” È l’ultimo sopravvissuto del supergruppo e nel cinquantesimo anniversario del trio, sta preparando uno show per suonare di nuovo con Emerson e Lake, in sincrono con le loro immagini e le loro parti musicali tratte da un loro show
È passato mezzo secolo da quando il rock progressivo, che integrava elementi di musica classica, contemporanea e jazz espandendo gli orizzonti del rock’ n’roll tradizionale, visse la sua stagione d’oro e trovò in Italia un seguito appassionato. All’inizio degli Anni 70 i Genesis ebbero successo da noi prima che nella patria Inghilterra, e un gruppo sperimentale come i Van Der Graaf Generator arrivò al numero uno in classifica.
In quell’epoca, così importante da lasciare uno strascico che arriva fino ad oggi, il supergruppo formato dal fenomenale tastierista Keith Emerson, il cantante e bassista Greg Lake e il batterista Carl Palmer, già famosi per la militanza in altre band, produsse dischi epici come il fantasioso Tarkus e una rilettura in chiave rock di Quadri Di Un’Esposizione del compositore russo Musorgskij.
Erano i più vicini alla musica classica ma anche tra i più istrionici sul palco, dove Emerson saltava sull’organo e prendeva selvaggiamente a pugnalate la tastiera mentre Palmer percuoteva enormi gong alle spalle della sua batteria. Per celebrare il 50° anniversario della band è uscito Emerson Lake & Palmer – L’autobiografia ufficiale (Rizzoli Lizard) che raccoglie le testimonianze dei tre protagonisti corredate da foto straordinarie.
Emerson e Lake sono purtroppo scomparsi entrambi nel 2016. Carl Palmer, a 71 anni, tiene viva la memoria della band portando sul palco la «Carl Palmer ELP Legacy».
«Tornerò a suonare in America a fine gennaio – ci dice dalla sua casa in Inghilterra – e se tutto va bene dovrei venire in Italia in maggio. Nel frattempo sto montando un concerto in cui potrò suonare di nuovo con Emerson e Lake, in sincrono con le loro immagini e le loro parti musicali tratte da un nostro show alla Royal Albert Hall. So che Keith e Greg lo avrebbero voluto e le loro famiglie hanno approvato il progetto. Spero di poterlo realizzare entro la fine del 2022».
È vero che voi tre formaste la band pur non essendo amici?
«Eravamo amici di musica, in un modo che non avevo mai sperimentato prima né mai più mi succederà. Avevamo poco in comune, andavamo abbastanza d’accordo ma non saremmo mai andati in vacanza insieme, ma quando eravamo dietro ai nostri strumenti era magico. Suonavamo e basta. Non abbiamo mai litigato per questioni di soldi o di donne, ma potevamo discutere per tre anni su quattro misure di una canzone. Eravamo tre individui, molto onesti tra noi, ognuno con le sue convinzioni, ognuno con la stessa importanza: Emerson, Lake e Palmer».
Tra i batteristi della sua generazione diversi non riescono più a sostenere un intero concerto. Lei ancora suona con grande vigore. Come si mantiene in forma?
«Io non sono una rockstar. Non lo sono mai stato e non è per questo che ho scelto il mio mestiere. Vengo da una famiglia di musicisti, dai nonni ai nipoti suonano tutti. Sono stato fortunato perchè ho suonato con delle band di successo ma il mio obiettivo era solo essere sempre più bravo, quindi mi sono sempre preso cura di me. Mi sono divertito anche io, intendiamoci, ho preso qualche droga come tutti, ma cercando di non oltrepassare mai il confine. Non ho mai bevuto troppo, sono sempre stato attento alla dieta e all’esercizio. Faccio attività fisica tutti i giorni (c’è un tapis roulant professionale nel suo studio, n.d.r.), vado a sciare e mi piace suonare la mia batteria. Anzi, credo di suonare meglio di prima. La mia filosofia è semplice: se miglioro, va bene. Se non miglioro ma mantengo il mio standard, va bene. Quando mi accorgerò di non riuscire più a mantenere il mio livello, allora Ciao Ciao Baby, smetterò di suonare».
I vostri concerti sono rimasti nella storia per il gigantismo, come testimonia la foto che apre e chiude il libro, che ritrae le centinaia di persone che lavoravano ai vostri tour.
«Oggi lo show di un artista di prima categoria, come Rolling Stones o U2, impegna lo stesso numero di persone, solo che noi lo abbiamo fatto per primi. Allora sembrava esagerato, ma ha segnato la strada per ciò che sarebbe arrivato dopo e di questo vado fiero, anche se la stampa ci definiva pomposi e stravaganti e dicevano che buttavamo i soldi. Investivamo nello show, spendevamo per portare la musica al pubblico».
Arrivaste in Italia nel 1972, a Genova e Bologna, poi altre volte, fino allo storico concerto a Milano nel 1974. Cosa ricorda di quei tour?
«A dire il vero il primo tour italiano fu un incubo. Voi italiani siete gente splendida ma il problema era l’organizzazione. Non c’era controllo, il pubblico entrava di pomeriggio mentre noi stavamo ancora provando sul palco, qualsiasi cosa veniva decisa all’ultimo momento, non era facile suonare da voi in quell’epoca. In ogni caso ho dei bei ricordi. Un giorno all’Hotel Hilton di Roma chiesi di affittare un’auto e mi diedero una Ferrari verde!»
In quegli anni metteste sotto contratto con la vostra etichetta, la Manticore, due importanti band italiane, P.F.M. e Banco Del Mutuo Soccorso.
«Avevo incontrato Franz Di Cioccio (batterista della P.F.M., ndr) proprio in Italia. Mi aveva fatto ascoltare Celebration, che secondo me poteva diventare un successo anche in Inghilterra. Pubblicammo il disco sulla nostra etichetta, vennero a fare dei concerti e il singolo entrò nella hit inglese. Li portammo con noi in America e anche lì stava per succedere qualcosa di importante, ma per essere davvero una band internazionale avrebbero dovuto trasferirsi. Preferirono non farlo e mi dispiace perchè erano e sono musicisti eccellenti. Sono rimasto in contatto sia con loro che con il Banco e ci è capitato di suonare negli stessi festival».
Il libro termina con l’ultimo grande concerto di ELP, nel 2010, al festival High Voltage di Londra. Che ricordi ha di quel momento?
«Sapevo che sarebbe stato il nostro ultimo show. Fu molto difficile prepararlo. Keith e Greg già non stavano bene, ci vollero cinque settimane di prove per eseguire brani che conoscevamo a memoria da 40 anni. Alla fine non fu il concerto che avremmo voluto, e il pubblico se ne accorse. Non ho mai ascoltato la critica, il pubblico è quello che conta. Sono quelli che comprano i biglietti e i dischi, e in quell’occasione volevano vederci insieme un’ultima volta. Lo sapevamo, dunque tutti e tre ci impegnammo al massimo. Una settimana dopo chiamai gli altri e dissi: amici, mi piange il cuore ma secondo me è meglio se chiudiamo qui. Non la presero bene, specie Greg, ma ci voleva qualcuno che lo dicesse e in quell’occasione toccò a me».
Eravate rimasti in contatto negli ultimi anni?
«Mi sentivo con Keith, avevamo un nuovo progetto insieme. La telefonata che mi comunicò il suo suicidio la ricevetti dopo un concerto in Italia, a Carrara. Con Greg non ci eravamo più sentiti negli ultimi quattro anni. Non voleva parlare della sua malattia».
Si sarebbe mai aspettato che Emerson si togliesse la vita?
«Lui aveva un grave problema a una mano, da anni. Lo avevo accompagnato io ad operarsi all’ospedale a Los Angeles, e sembrava avesse risolto ma il problema tornò e l’ultimo concerto fu molto difficile per lui. Poi la situazione peggiorò, dovette smettere di suonare e quella fu la causa. Era un musicista, non poteva sopportare di non mettere più le mani sulla tastiera. Quello che posso dire è che nel momento in cui anche io mi renderò conto di dover smettere, semplicemente prenderò un aereo e sparirò nel tramonto».