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Grazia Deledda, le inquietudini di una donna moderna
di Barbara Chessa
Il 27 settembre 1871 nacque a Nuoro Grazia Deledda, unica scrittrice italiana ad essere stata insignita col premio nobel per la letteratura. 150 anni dopo il capoluogo barbaricino si prepara a rendere omaggio alla sua più famosa cittadina con 150 eventi che si svolgeranno tra piazza Satta, Santu Predu, il monte Ortobene e il paese di Galtellì
La Deledda iniziò a scrivere giovanissima, come raccontò lei stessa durante il discorso per il conferimento del premio Nobel: “Quando cominciai a scrivere , tredici anni, fui contrariata dai miei. Il filosofo ammonisce: “Se tuo figlio scrive versi, correggilo e mandalo per la strada dei monti. Se lo trovi nella poesia la seconda volta puniscilo ancora. Se lo fa per la terza volta, lascialo in pace perché è un poeta. Senza vanità anche a me è capitato così.” E ancora nell’ esordio della novella “La Grazia” scrive: “I miei primi piccoli successi letterari furono accompagnati, come certi grandi successi, da vivi dispiaceri. In famiglia mi si proibiva di scrivere poiché il mio avvenire doveva essere ben altro di quello che io sognavo: doveva essere cioè un avvenire casalingo, di lavoro esclusivamente domestico, di nuda realtà, di numerosa figliolanza.”
Frequentò la scuola solo fino alla quarta elementare e poi continuò a studiare in casa dove le furono impartite lezioni di latino, italiano e francese. Si formò da autodidatta e “la sua prima vera scuola di letteratura” furono le leggende e le storie raccontate dagli anziani del suo paese, i pastori e gli agricoltori che frequentavano la sua casa o che poteva ascoltare nelle feste paesane. A 16 anni compose la sua prima raccolta di versi intitolata “Sul mare” e nel 1888 la rivista romana Ultima moda pubblicò il suo primo racconto “Sangue sardo” che segnò l’inizio di una lunga e feconda produzione letteraria. Successivamente iniziò a collaborare con i periodici sardi dell’epoca tra cui La Sardegna, l’Avvenire di Sardegna e Vita Sarda.
Tra fine ottocento e inizi del novecento Il Positivismo favorì l’interesse per gli usi, i costumi e le credenze popolari e fu così che la Sardegna, musa ispiratrice dei racconti deleddiani, divenne ben presto anche materia di studio e di ricerca. Nel 1890, in un’Italia da poco unificata e alle prese con lo sforzo di fare gli italiani, nacque a Roma la “Società italiana per le tradizioni popolari italiane” con l’obiettivo di salvaguardare il variegato patrimonio folkloristico italiano dall’omologazione culturale in corso. Nel 1892 la Deledda iniziò a collaborare con la rivista “Natura ed Arte” diretta da Angelo De Gubernatis, docente di Sanscrito e letteratura italiana alla Sapienza di Roma e fondatore della suddetta società. Lo studioso torinese affidò alla Deledda l’incarico di raccogliere il materiale etnografico per il volume dedicato alla Sardegna. La ricerca della Deledda venne pubblicata in 12 puntate sulla Rivista delle tradizioni popolari italiane e successivamente raccolta in un volume dal titolo “Tradizioni popolari di Nuoro in Sardegna.”
Da questa collaborazione nacque una solida amicizia, declinata in un lungo rapporto epistolare, che corroborò la volontà delle giovane Deledda d’ intraprendere la carriera di scrittrice.
Il materiale etnografico raccolto per il De Gubernatis, riguardante tradizioni e i riti del mondo agro-pastorale, superstizioni e credenze magiche, costituì il semenzaio di idee da cui la scrittrice attinse nella stesura delle sue opere.
Tutta la produzione Deleddiana è infatti fortemente connotata dai riferimenti alle tradizioni popolari della sua terra e risente di quel senso del magico e del fantastico proprio delle leggende popolari sarde tramandate attraverso la tradizione orale dei contus.
Nelle sue opere non rivivono solo le tradizioni della terra natia ma anche i valori delle società arcaiche e del mondo agro-pastorale in un periodo in cui le forze disgregatrici del progresso avevano portato allo spopolamento delle campagne e all’emigrazione verso terre più ricche. Vengono rievocati “ gli antichi saperi” e ”i modi aggreganti delle società primitive” e viene abilmente rappresentata la complessità dell’animo umano, capace di provare, anche e soprattutto, quei sentimenti irrazionali che le logiche del positivismo avevano sminuito e posto in secondo piano.
In un momento in cui nasceva l’editoria per ragazzi la Deledda parlò ai sentimenti educandoli, attraverso il linguaggio semplice e figurativo delle fiabe e delle leggende.
Insieme ad altri autori del suo tempo come Collodi, De Amicis o Salgari contribuì “a plasmare le coscienze” e a creare “una memoria e un immaginario collettivo” che funsero da collante nella costituzione di una identità italiana, molto prima dei manuali scolastici.
Ma soprattutto, come dice Il Manca, ebbe il merito di “traghettare il romanzo sardo nel novecento Italiano…rappresentando per gli autori sardi in lingua italiana ciò che Manzoni era stato per gli scrittori ottocenteschi delle tante Italie.”
La Deledda dovette infatti tradurre nella lingua italiana, una lingua d’inappartenenza, i modelli culturali e linguistici propri della tradizione orale sarda. Il risultato fu una narrativa fortemente connotata dall’impiego di termini, strutture e modi di dire propri del parlato sardo che rivivono nei proverbi, nelle imprecazioni, negli intercalari e nelle peculiari strutture dialogiche .
Da tutta la sua opera letteraria traspare un forte legame verso i luoghi e la natura della terra natia, descritta come locus amoenus, luogo mitico e leggendario, dalla natura selvaggia e incontaminata:
“Ho vissuto coi venti, coi boschi, colle montagne. Ho guardato per giorni, mesi ed anni il lento svolgersi delle nuvole sul cielo sardo. Ho mille e mille volte poggiato la testa ai tronchi degli alberi, alle pietre, alle rocce per ascoltare la voce delle foglie, ciò che dicevano gli uccelli, ciò che raccontava l’acqua corrente. Ho visto l’alba e il tramonto, il sorgere della luna nell’immensa solitudine delle montagne, ho ascoltato i canti, le musiche tradizionali e le fiabe e i discorsi del popolo. E così si è formata la mia arte, come una canzone, o un motivo che sgorga spontaneo dalle labbra di un poeta primitivo.”
Nacque in Barbagia e rimase sarda per tutto il resto della sua vita, ma fu anche una donna di straordinaria modernità.
In seguito al matrimonio contratto con Palmiro Madesani, funzionario del ministero delle finanze, si trasferì a Roma, Gerusalemme culturale del tempo, dove iniziò a frequentare i salotti letterari della città e a intessere fruttuose relazioni lavorative. Strinse “rapporti di sorellanza” con donne di pari spessore intellettuale, come Ada Negri, Matilde Serao, Eleonora Duse e Sibilla Aleramo.
Pur mostrandosi scettica rispetto ad alcune correnti del femminismo del tempo, partecipò nel 1908 al Primo Congresso Nazionale delle Donne Italiane. Nel 1909 accettò la candidatura nel partito radicale, il partito più progressista del tempo, per il collegio elettorale di Nuoro, quando ancora alle donne non era concesso il diritto di voto. Ottenne solo 34 voti ma fu comunque un gesto di straordinaria audacia. In un’intervista rilasciata al Giornale d’Italia affermò: “Io non ho mai voluto associarmi a certe manifestazioni del femminismo moderno. Ci sono però tante cose di cui una donna saprebbe parlar meglio di tanti uomini. C’è tutta la legislazione del lavoro femminile e quella del lavoro dei bambini da rifare, anzi da fare.”
Nonostante fosse una fervente cattolica era favorevole al divorzio e seguì con interesse l’animato dibattito che accompagnò la proposta di legge del 1902 che ne contemplava l’introduzione almeno nei casi di donne sposate a condannati con oltre 25 anni di reclusione. In un’intervista rilasciata al Quotidiano “La tribuna” sostenne che il divorzio fosse indispensabile quando i due coniugi erano effettivamente impossibilitati a convivere. Sul tema scrisse il romanzo “Dopo il divorzio” e una sua rielaborazione dal titolo “Naufraghi in porto”.
Fermamente convinta che l’arte non avesse bandiera politica, durante il suo discorso per il conferimento del Nobel, ringraziò solo il re d’Italia.
A Benito Mussolini, che dopo il nobel la volle incontrare e le domandò cosa potesse fare per lei, la Deledda chiese clemenza per il suo compaesano Elias Sanna costretto al confino per motivi politici. Alla domanda di un funzionario di partito, che le chiese cosa volesse fare per il fascismo, rispose che l’arte non conosceva politica e il regime si vendicò consigliando ai librai di non esporre i suoi libri, come racconta l’editore Treves in una lettera alla scrittrice.
Grazia Deledda non fu soltanto una scrittrice, ma anche un modello di donna da prendere a esempio. Perseguì tenacemente il proprio sogno con ferrea volontà e incrollabile determinazione, nonostante il suo essere donna e voler intraprendere una carriera prettamente maschile o l’impossibilità di ricevere un’istruzione regolare. Non desistette di fronte alla proibizione della famiglia, alla riprovazione dei nuoresi o alle critiche caustiche di chi la derideva chiamandola la “massaia della letteratura” riuscendo infine a coronare il proprio sogno. Parlando di se stessa in una lettera a Salvator Ruju scrisse: “Mi pare d’essere una cosa stessa con la roccia, e che l’anima mia sia grande e luminosa come il cielo chiuso dalle montagne della Barbagia fatale, oltre le quali il mondo non esista più.” E come roccia e pietra miliare della sua amata terra di Sardegna vogliamo ricordarla.