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«Caravaggio siamo noi», intervista a Gavino Sanna
Il guru della pubblicità Gavino Sanna: «La sua arte ci appartiene»
Gavino Sanna da Porto Torres chi non lo conosce? Il più famoso pubblicitario italiano, famoso di fama mondiale s’intende, in dieci anni di soggiorni nella Grande Mela ha lavorato per le più grandi quanto blasonate agenzie americane, Coca Cola per citare un marchio soltanto; i riconoscimenti di cui sopra non si contano, sette Oscar mondiali della pubblicità, altrettanti Leoni d’oro al Festival di Cannes, il suo refrain “Dove c’è Barilla c’è casa” non è eccessivo dire abbia segnato un’epoca.
Da sempre appassionato d’arte è artista egli stesso in persona, caricaturista anzichenò, anzi per la sua caricatura di Gianfranco Fini con didascalia “Dove c’è Balilla c’è casa” appesa sui muri del museo Masedu di Sassari nel 2004 i muri stanno ancora ridendo. E sono passati undici anni. Nei quali al pubblicitario ed artista si è aggiunto e man mano consolidato il produttore di vini (il suo “Buio” e “Buio Buio”, chi non li conosce?), che fanno del turritano Gavino una sorta di Cincinnato sardo post litteram: lasciati o quasi i negozi del pubblicitario, egli si dedica agli ozi della cantina vitivinicola “Mesa”, Sant’Anna Arresi.
Se poi ci scappa tra un sorso e l’altro di curare la campagna di comunicazione per la mostra “Caravaggio e i caravaggeschi. La pittura di realtà” curata da Vittorio Sgarbi a Palazzo Ducale di Sassari, perché no?
Pubblicità e arte, arte e pubblicità, l’arte della pubblicità, la pubblicità dell’arte. Sembra un’accoppiata inseparabile, lei che ne dice? Come pubblicitario e come artista.
L’esistenza di un rapporto stretto fra arte e pubblicità mi pare indubbia. Già nei secoli passati, ben prima che esiste la moderna pubblicità in senso lato come la conosciamo noi oggi, ci sono stati artisti che hanno lavorato per la pubblicità e con la pubblicità nelle loro opere d’arte. Si potrebbero fare molti esempi che dimostrano quanto il fenomeno pubblicitario derivi da quello artistico, nonostante la finalità della pubblicità sia sostanzialmente quella sia quella di far vendere ciò che propone, sia che si tratti di un prodotto o di un servizio.
Mamma arte e figlioletta pubblicità?
Non parlerei di una derivazione filiale diretta, piuttosto direi che è evidente che la creatività artistica e quella pubblicitaria hanno molto in comune: la pubblicità, fin dalle sue prime manifestazioni ed espressioni si è sempre servita dei registri comunicativi propri dell’arte visiva.
Per esempio?
Per esempio uno dei concetti basilari della pubblicità è che l’attenzione di chi guarda debba essere catturata con espedienti sia grafici che cromatici, esaltati dalla omogeneità dei caratteri tipografici che a loro volta esaltino in tutto e per tutto l’illustrazione.
Come è stato curare la campagna pubblicitaria della mostra sassarese su “Caravaggio e i caravaggeschi”?
Ho lavorato con Antonio D’Amico sui formati e materiali di manifesti e volantini. Con Caravaggio siamo appunto nell’ambito della pittura della realtà, e ad un pubblicitario questo non può ovviamente dispiacere.
In che senso?
Se io devo comunicare qualcosa di preciso alla gente, cosa c’è di meglio di un’arte che ritrae a sua volta la gente, la gente vera, gente della strada, avvenimenti palpabili?
Che slogan troverebbe per l’arte di Caravaggio?
Caravaggio ci appartiene.
Perché dipingeva l’uomo comune, l’uomo della strada?
Lo dipingeva come se lo fotografasse, in quel momento preciso in quell’istante. Ma non lo dice e non lo scopre certamente Gavino Sanna.
Sgarbi per esempio lo ripete spesso.
Difatti l’identità di vedute riguardo a questa mostra è stata piena. Davanti a un dipinto di Caravaggio è come se la realtà si impadronisse della tela, venendo incontro all’artista che la riproduce così com’è, in maniera completamente mimetica. La sua arte anticipa la fotografia e fa sì che lui sia autore dell’opera ma in un certo senso anche attore. Sta fuori da e contemporaneamente dentro la sua opera.
Ha scelto come immagine dei manifesti l’opera raffigurante San Pietro dello spagnolo Jusepe de Ribera. Perché?
In sintesi perché ho trovato travolgente il contrasto tra gli occhi e la pelle dell’uomo ritratto. È tutto vero, palpabile, reale.
C’è da dire però che lei ha scelto di mettere soltanto il volto di San Pietro nel manifesto, mentre nel dipinto la figura del vicario di Cristo è tutta intera. Forse perché intero comunica una cosa e nel dettaglio del volto invece un’altra?
Esattamente. Nella figura di Pietro tutta c’è il racconto di tutta la sua vita, sofferenze, pentimenti. Nel volto invece c’è il ritratto della speranza. Trovo che Ribera sia stato per certi aspetti anche più abile di Caravaggio.
Infine la sua speranza, appunto, per questa mostra qual è?
La mia speranza è che Sassari e i sassaresi dimostrino con le loro presenze di essere all’altezza di una mostra davvero di grande valore, evento irripetibile o quasi. E dunque che la città dimostri di non meritare la qualifica di “città sonnolenta” o peggio “morta” che spesso si è meritata.
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