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Allarme demenza in Italia: oltre un milione di casi, con l’Alzheimer in prima linea
Secondo le stime, i numeri di questa emergenza sarebbero destinati a triplicare entro il 2050, superando i 3 milioni di casi. L’Esperta: attenzione ai campanelli d’allarme
In Italia si registra una preoccupante crescita dei casi di demenza, con oltre un milione di pazienti affetti dalla patologia, di cui 600-700mila colpiti specificamente dalla malattia di Alzheimer. Il dato emerge dal 54° Congresso Nazionale della Società italiana di Neurologia (SIN), dove gli esperti hanno analizzato le proiezioni del recente Rapporto mondiale 2024 dell’Alzheimer’s Disease International, elaborato dalla London School of Economics and Political Science.
Secondo le stime, i numeri di questa emergenza sarebbero destinati a triplicare entro il 2050, superando i 3 milioni di casi. La professoressa Laura Bonanni, Responsabile dell’Unità Operativa Complessa di Neurologia dell’Ospedale di Vasto, individua due cause principali di questo incremento nell’invecchiamento della popolazione occidentale e nel miglioramento delle capacità diagnostiche, che permettono di identificare più casi rispetto al passato.
L’importanza di riconoscere i segnali d’allarme e le nuove speranze terapeutiche
L’Alzheimer, che rappresenta il 55-60% di tutti i casi di demenza, si manifesta inizialmente, a detta di Bonanni, attraverso dimenticanze quotidiane come la difficoltà a ricordare luoghi familiari o eventi recenti, come ad esempio le attività svolte il giorno prima o il posto in cui si è lasciata la macchina. Tutte cose “che devono essere considerate come un campanello d’allarme”, secondo l’esperta.
Sulle modalità con cui combattere questo tipo di patologie, una novità significativa nel campo terapeutico riguarda l’introduzione degli anticorpi monoclonali, definiti “disease modifying”, capaci di modificare il decorso della malattia agendo direttamente sui meccanismi patogenetici. Questi farmaci, che aiutano a liberare il cervello dalla proteina amiloide, risultano essere particolarmente efficaci nelle fasi precoci della malattia. Proprio in riferimento a questo la professoressa Annachiara Cagnin, Responsabile del Centro disturbi cognitivi e demenze presso la Clinica Neurologica dell’Azienda Ospedaliera UniPD, evidenzia l’importanza di una diagnosi precoce, specialmente per i pazienti con forme lievi, che rappresentano i candidati ideali per i nuovi trattamenti.
Fattori di rischio, centri specializzati e sfide future
Riguardo i fattori di rischio di tali patologie, questi sarebbero molti. “La familiarità è forse la condizione che più preoccupa la persona che viene da noi, ma non ha un valore così forte come lo può pensare il singolo individuo.” – afferma Cagnin – “In realtà, le forme con una determinazione e un rischio genetico sono rarissime e quasi esclusivamente a carico di pazienti molto giovani, in cui la ricorrenza di demenza giovanile è presente in più generazioni. Insomma, avere un parente affetto in famiglia per noi clinici non è una determinante forte per definire il rischio“.
Esistono invece una serie di fattori metabolici, stili di vita, salute cardiovascolare, che secondo l’esperta possono e devono essere intercettati perché “se trattati e modificati in età adulta, intorno ai 40-50 anni, possono proteggere il cervello e rafforzarlo nel difendersi dalla malattia che inizia con il deposito di amiloide molti anni prima”. E siccome il nostro cervello cerca di lottare contro questo tipo di tossicità, la lotta sarà “tanto più efficace quanto più il cervello è sano“.
A proposito dei centri dedicati alla patologia dell’Alzheimer, in Italia ne esistono molti sul territorio, che però non sono in connessione tra di loro. “Nel nostro Paese i centri di decadimento cognitivo, che sono più di 500 e nati da molti anni, si sono organizzati in base alle esigenze e alle disponibilità locali – ha affermato la professoressa Cagnin – “Quindi ci sono dei centri che per essere inseriti all’interno di una dimensione di ricerca, universitaria o di grandi ospedali si sono subito proposti per esempio per la diagnosi biologica, utilizzando marcatori di imaging, proprio perché avevano un assetto che permetteva questo“.
La sfida futura, secondo gli esperti, sarà quindi quella di creare una rete efficiente tra i centri di alta specializzazione e quelli di screening e monitoraggio, per garantire un flusso fluido dei pazienti e una condivisione ottimale delle conoscenze e delle risorse. Questo aspetto diventerà particolarmente cruciale con l’introduzione dei nuovi farmaci e l’incremento della necessità di diagnosi biologiche più approfondite.
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