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L’intervista | Alessandro De Roma torna in libreria con il suo settimo romanzo
La ricerca ostinata della felicità da parte dell’undicenne Pietro Mele nel nuovo libro dello scrittore “Grande terra sommersa”
«Credo che il personaggio di Pietro Mele sia un po’ sempre stato dentro di me, con questa dicotomia tra il sogno di una vita piena di avventure, di felicità, ancora tutta intera, e poi un evento tragico che scompiglia completamente i piani esistenziali. La risalita è sempre molto dura, credo sia un’esperienza che facciamo tutti, tra i sogni e la necessità di adeguarci a quello che la vita è diventata». Alessandro De Roma è appena tornato in libreria con un nuovo romanzo, il settimo dal suo esordio nel 2007, quando, a trentasette anni, vinse il Premio Dessì con “Vita e morte di Ludovico Lauter” (Il Maestrale). Il nuovo libro dello scrittore di Ghilarza, “Grande terra sommersa” (Fandango, 553 pagine), ambientato in gran parte nel piccolo borgo verde di San Leonardo di Siete Fuentes, in provincia di Oristano, è una storia intensa, crudele e vitale, che si inabissa nel dolore senza smettere di rincorre una felicità ostinata. Una storia che passa continuamente dalle nuvole al sole, dalla disperazione alla leggerezza.
Alessandro, la storia di Pietro Mele inizia quando, a undici anni, perde la madre in un incidente di cui si sente responsabile. Come si conciliano durante la sua crescita, raccontata in prima persona, la tendenza ad analizzarsi in maniera quasi ossessiva e il desiderio di ritrovare la gioia di vivere?
«Il fatto di analizzarsi per lui è una necessità: la solitudine lo spinge a scrivere un diario e lettere alla madre. Però gli piacerebbe smettere di pensare, addirittura, se fosse mai possibile, diventare un albero. È attratto dalla possibilità di vivere una vita più leggera: cosa che per un po’ riuscirà a fare grazie all’amicizia con un altro personaggio, Giacomo, che per lui rappresenta una specie di rinascita»
Prima, però, deve confrontarsi con gli adulti, molti dei quali sono inadeguati o inaffidabili, come Seb, suo padre, che gli esaspera i sensi di colpa invece di proteggerlo e rassicurarlo, e che inoltre usa la religione come una forma di controllo sugli altri. Perché questa visione così pessimistica del mondo adulto?
«Il libro è dal punto di vista di un ragazzino solo, che si sente incompreso dal mondo degli adulti perché le cose del mondo degli adulti sono misteriose. È quasi come se ci fosse un complotto alle sue spalle, per fare di lui qualcosa, mentre lui non sa assolutamente che cosa diventerà. Però qualche adulto lo salverei: per esempio, la nonna alla quale Pietro viene affidato, che all’inizio sembra ostile e invece è del tutto diversa da come appare. Oppure Piras, il giardiniere, che è una bellissima persona: non esiste, ma sarebbe bello averlo conosciuto. Tornando a Seb, mi hanno sempre appassionato le storie delle sette religiose, perché mi affascina l’idea che qualcuno possa completamente cedere la propria capacità di arbitrio e affidarla a qualcun altro, mettersi nelle mani di un essere considerato carismatico. Seb aspira ad essere quel tipo di persona, anche con suo figlio, solo che con lui le cose non gli vanno bene».
Vicino alla nonna di Pietro abitano i Campus, una famiglia solo apparentemente perfetta. Con Luca Campus, suo coetaneo, Pietro stringe un’amicizia molto intensa ma piena di zone d’ombra.
«Be’, effettivamente, le amicizie e le relazioni umane non sono mai limpide, nel senso che ciascuno di noi vede negli altri qualcosa di diverso, e se dovessimo analizzare in profondità le relazioni tra le persone vedremo a volte delle cose veramente oscure. Il che non significa che l’amicizia non sia un valore in sé, basta sapere apprezzare anche nelle ombre le zone di luce. Le relazioni umane contengono anche dei furti, degli inganni, fa parte della dimensione umana, eppure dentro questo, a volte, la necessità di soddisfare il proprio egocentrismo, si può comunque trovare qualcosa di molto bello, se si decide di guardare alla parte buona di queste relazioni».
L’amicizia per Pietro coincide anche con la scoperta del proprio orientamento sessuale “fluido”. Alessandro, tu sei un insegnante di filosofia: oggi per i ragazzi è più facile parlare di questo argomento?
«La cosiddetta fluidità esiste da quando esiste l’essere umano sulla terra, la differenza è che adesso se ne parla un po’ di più, mentre fino a non tanti decenni fa non si affrontava nemmeno nei romanzi. Nelle scuole se ne parla un po’ di più, però continua ad essere un argomento abbastanza tabù, molto più di quanto non si creda in realtà».
Quanto c’è di autobiografico in “Grande terra sommersa”?
«Tutte le cose strane che capitano a Pietro, per fortuna non mi sono capitate. Però nel libro ho cercato di visitare un po’ tutte le tappe della mia crescita, come essere umano e come scrittore, innanzitutto decidendo di ambientare la storia in un luogo a me molto caro, che è San Leonardo di Siete Fuentes, dove ho passato buona parte della mia infanzia, e che per me è il luogo dell’immaginazione, in cui ho fatto tutti i miei primi tentativi letterari»
Di tappe, anche fisiche, nel romanzo ce ne sono tante: soprattutto la Sardegna ma anche l’altrove al di là del mare: come si fa a conciliare l’esigenza di un’ambientazione ben definita – evitando gli stereotipi sulla “sardità” – con quella di ampliare gli orizzonti?
«Io amo molto nominare i luoghi con i loro nomi, mi piace nominare i paesi reali, non mi piace inventarmi dei nomi. E non voglio scrivere romanzi che si appoggino sugli stereotipi della sardità, perché mi sembrerebbe di offendere questa terra che, nel bene e nel male, è molto più ricca di come a volte viene vista, soprattutto da chi non la conosce. Il fatto di aver vissuto in tanti luoghi diversi – sono di Ghilarza, ho fatto l’Università a Cagliari, che è una città che amo molto, ora vivo vicino a Sassari, ho studiato al liceo a Oristano, sono nato a Carbonia, ho vissuto a Nuoro, a Orosei, un anno a Ozieri, poi in Inghilterra, in Francia, Torino, Roma, Sanremo – mi ha aiutato a sentirmi abbastanza libero nel rapporto con la mia terra, mi sembra di poterci ambientare qualunque storia, senza nessuna limitazione».
L’autore
Alessandro De Roma, nato a Carbonia nel 1970, è laureato in Filosofia ed è insegnante alle scuole superiori.
Ha esordito nella narrativa nel 2007 con Vita e morte di Ludovico Lauter (Premio Dessì) per le edizioni Il Maestrale presso il quale ha pubblicato anche le due opere successive: La fine dei giorni e Il primo passo nel bosco.
Successivamente, nel 2011 ha pubblicato Quando tutto tace per Bompiani e nel 2014 La mia maledizione nel 2014 per Einaudi, oltre all’antologia benefica Sei per la Sardegna nello stesso anno.