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Piero Marras a tutto campo
Il cantautore festeggia 40 anni di carriera e… d’autore
Piero Marras alias Piero Salis ( “ho cambiato perché di Salis ce n’erano troppi” ) è il cantautore che per non tradire la lingua sarda ha rinunciato all’inizio della sua carriera ai contratti della Emi. Nei suoi album ci sono sempre brani in italiano ma il cuore dei suoi lavori è proprio la lingua sarda, con la sua identità, la cultura, le battaglie contro le servitù militari.
Ora ultimato il lavoro in sala di registrazione sta curando la confezione del nuovo album, “Carte liberate” (due Cd con dodici brani e un libretto con i testi), frutto di un viaggio nei luoghi e negli archivi delle colonie penali dell’isola. Sarà il primo a distanza di quattro anni dall’uscita di “Ali di stracci” con testi dello scrittore Salvatore Niffoi.
Marras, possiamo dire che quel viaggio ha riacceso la sua ispirazione?
Direi di sì anche se una pausa di quattro anni tra un album e l’altro è un tempo fisiologico per un cantautore.
Come è nato questo viaggio?
Dalla conoscenza di Vittorio Gazale, presidente del Parco naturale di Porto Conte. Ha voluto conoscermi e propormi di scrivere la prefazione di un libro sul bandito Bachisio Falconi che aveva scritto con la Peddio. L’ho letto e l’ho accontentato. Così è nata l’amicizia con Gazale. Mesi dopo mi ha parlato di un gruppo di detenuti impegnati nell’ex carcere di Tramariglio nel lavoro di recupero e riordino degli archivi di tutta la Sardegna.
C’è stato?
Certo, più volte. Con l’aiuto di Gazale ho potuto leggere le lettere scritte dai detenuti, in gran parte mai giunte a destinazione e le loro più svariate richieste alla direzione del carcere. Ho conosciuto una realtà terribile, un sistema carcerario ostativo, che toglieva ai detenuti ogni speranza di tornare in libertà. C’è una frase di don Benzi che aiuta a capire: “L’uomo non è il suo errore”. Ho raccolto, letto, selezionato poi ho lavorato freneticamente. In due mesi ho scritto tutto, rigorosamente in sardo, utilizzando le parole originali dei detenuti.
Una storia che l’ha colpita in modo particolare?
Quella di un giovane agente di custodia che aveva fatto amicizia con un detenuto semi libero nella colonia agricola. Lo accompagnava tutti i giorni con l’ordine tassativo della direzione di non perderlo mai di vista. L’amicizia lo tradì e il detenuto ne approfittò uccidendolo a bastonate. Ho sentito un forte senso di ingiustizia leggendo quel fascicolo.
Per questo ha dedicato una canzone agli agenti di custodia?
Anche, ma soprattutto perché di questi uomini che trascorrono la loro vita in carcere come i detenuti nessuno parla se non quando succede qualcosa di spiacevole. Meriterebbero maggiori attenzioni. Il messaggio che attraverso il brano “L’agente di custodia” ho voluto lanciare è stato accolto con grande calore. Il concerto nel carcere di Bancali (Sassari) è stato un grande successo. Mi ha (e spero abbia) regalato sensazioni che difficilmente si provano in un concerto.
Facciamo un passo indietro. I due album che le sono più cari.
Sicuramente “Fuori campo” che ho scritto nel 1978 e ho registrato a Roma proprio nei giorni del rapimento e dell’uccisione di Aldo Moro. E poi “Abbardente”, del 1985, che ha segnato la mia prima scelta netta verso la lingua sarda. Ho utilizzato alcune poesie di Pedru Mura, un ramaio nato a Isili nel 1901, definito il Garcia Lorca sardo. Nel 1987 è nato “Funtanafrisca”, su testi di Paolo Pillonca, allora giornalista dell’Unione Sarda. In un brano in particolare ho manifestato un forte impegno civile, “Osposidda”. Pillonca era stato inviato dal suo giornale in questa località di montagna tra Orgosolo e Oliena che il 19 gennaio del 1985 fu teatro del più sanguinoso conflitto a fuoco tra banditi e forze dell’ordine. Furono cinque le vittime, quattro banditi e un agente di polizia. Mi colpì molto negativamente il racconto che fece Pillonca delle camionette che scendevano a Nuoro con i cadaveri dei banditi sui cofani delle camionette. Ancora oggi quella vicenda, quando mi chiedono di cantare Osposidda, mi fa male. Sono convinto che la verità non sia mai stata scritta.
Il ricordo più bello della sua lunga carriera?
Il Natale del 2000 quando fui chiamato nella sala Nervi in Vaticano a cantare con Dionne Warwick “Sa oghe ‘e Maria” dedicata a Maria Carta. Naturalmente io cantai in sardo, Dionne in inglese.
Come arrivò la chiamata da Roma?
In realtà giunse a Milano. Mi chiamò un discografico che conoscevo da anni e mi disse di salire sul primo aereo e di raggiungerlo. “Ti vuole Dionne Warwick, vuole cantare con te una canzone che ricorda di aver sentito anni fa” mi disse. Risposi alla chiamata, raggiunsi la sala discografica di Milano e mi trovai di fronte a Dionne. Mi abbracciò e mi disse con semplicità: “Proviamo Sa oghe ‘e Maria?. La canteremo a Natale davanti a Papa Wojtyla”.
Pronti i microfoni facciamo un paio di prove e poi andiamo fino in fondo. Una cosa stupenda. A Dionne luccicavano gli occhi ma era felice. Si rivolse al fonico: “Dai su, veloce, facci sentire la registrazione”. La risposta la fulminò: “Signora, non sapevo di dover registrare”. Dionne era una furia. Lo ricoprì di insulti. Poi mi salutò: “Piero, tutto ok.
Ci vediamo a Roma”. Il giorno del concerto indossavo un abito etnico nero e una berritta particolare fatta da Modolo.
Quando entrai in sala tutti i cardinali si alzarono in piedi.
Mi avevano scambiato per un’autorità religiosa. Una risata allontanò la tensione. E a Maria Carta dedicammo davvero una bella versione di “Sa oghe ‘e Maria” .