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Mamuthones, enigma in maschera
Mamoiada, culla di una tradizione che “vive” oltre il carnevale
Foto di Tore Serra
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Nella Barbagia più profonda, terra di centenari, riti arcaici, sibille e leggende, tutto può accadere.
Un luogo severo e rigoroso ma generoso nell’indole e dalla dimensione umana. Un’isola nell’isola dove il territorio è il naturale guardiano silenzioso, la memoria di quest’angolo di Sardegna: Mamoiada è un posto dove la storia si intreccia col mito e dove le tradizioni, in un indissolubile commistione tra cultura popolare, religione e folklore, si concatenano in un legame primitivo. Mamujada è custode di un patto antico. E il tempo sembra fermarsi, quasi cristallizzato in una dimensione eterea.
Un viaggio in un piccolo mondo dove il confine tra il sacro e il profano è labile ma convive in sintonia. Un luogo dove non tutte le domande trovano una risposta. Vagabondare per il paese, abbandonarsi nel dedalo di strade e viottoli, nell’immaginario depositari del mito e della leggenda, restituisce echi lontani e arcani. Tuttavia è possibile calarsi senza diffidenza in una delle tradizioni più affascianti del mondo pastorale barbaricino: i Mamuthones, simbolo ormai riconosciuto di tutta un’isola.
“Mamuthones si nasce”. Non è un motto, ma un istinto, un richiamo ancestrale per chi è del paese. È qualcosa depositato nel cuore, di inspiegabilmente profondo e arcaico. A queste maschere si attribuiva il potere di influire sulle sorti dei raccolti e sulla sopravvivenza e per questo motivo, nonostante l’aspetto pauroso, la loro visita era gradita. E al fine di ottenere la loro benevolenza, si offrivano loro cibi e bevande. Oggi nella scenografica processione procedono affaticati e in silenzio mentre i loro alter ego, gli Issohadores, portatori di soha, una lunga fune in giunco, come per dissonanza, vestono in modo colorato (“veste ‘e turcu“, vestito da turco) e “agitano” la sfilata: una rappresentazione del ciclo naturale dell’eterno ritorno e scandito da un cerimoniale dalla coscienza antica.
Contestualizziamo subito le vostre radici. Come nascono i Mamuthones e i rituali loro legati?
Ci sarebbe tanto da raccontare – dice Francesco Cardenia, presidente dell’Associazione culturale Atzeni -. Le prime testimonianze scritte sono dell’immediato dopoguerra. Prima non abbiamo tracce tangibili. La tradizione veniva tramandata oralmente. Da bambini sentivamo i racconti dei nostri nonni e vedevamo loro vestirsi nel periodo del carnevale ma sopratutto a Sant’Antonio. L’usanza aveva acquisito anche un valore carnevalesco valorizzando molto la maschera. L’abbigliamento non era certo quello odierno, era meno curato e più improvvisato. Quello che avevano a disposizione, indossavano. È uno dei motivi per il quale siamo stati associati più al carnevale che al rito arcaico vero e proprio.
Oggi il rito arcaico s’intreccia col carnevale?
Sì, certamente. In passato col carnevale, ad eccezione della maschera, avevamo poco in comune. Era un rito di origine pagana, nato in epoca precristiana.
Successivamente con la diffusione del cristianesimo il rito si è “adeguato”, infatti, oggi, la prima uscita dei Mamuthones si fa in processione attorno al fuoco della parrocchia. È il giorno di Sant’Antonio Abate, tutti i fuochi del rione attingono da un tizzone, e così nascono collettivamente tutti i falò del paese.
Nel dopoguerra la tradizione è stata codificata.
È quella che oggi tutti conosciamo?
Naturalmente è stato curato più l’abbigliamento e gli accessori come i campanacci. Ci siamo costituiti con le associazioni Pro Loco del Comune e l’associazione intitolata a Costantino Atzeni colui che nel corso del ventesimo secolo è riuscito a rivitalizzare il mito impedendone la scomparsa o, peggio, la trasformazione in evento di consumo.
È stata fatta una ricerca sull’abbigliamento?
È chiaro l’abbigliamento non è quello originale. È cambiato.
Il velluto che abbiamo addosso è un tessuto del Novecento. Prima si usava il costume in orbace e tela. Indossiamo la casacca di pelle ovina, caratteristica dei pastori sardi, chiamata sas peddes, le scarpe in pelle conciate a mano dette sos hòsinzos; sul volto portiamo invece sa visera, una maschera nera antropomorfa, il nostro segno distintivo. Sul capo il berretto sardo (coppola) ed il fazzoletto del vestiario femminile (su mucadore) che avvolge visera e berretto.
Avete della documentazione in forma scritta risalente al XIX secolo?
No, la forma scritta risale sempre e comunque al dopoguerra; prima è stata tramandata oralmente con tutte le limitazioni del caso che potete immaginare. Gli anziani l’hanno a loro volta ereditata dai genitori e dai nonni ma sempre e solo oralmente.
Il rituale si perde nella notte dei tempi. Un mistero affascinante…
Esattamente. Vari antropologi hanno accettato la sfida; quella di ricostruire il passato parlando con gli anziani, memoria storica del paese, ma la linea temporale ad un certo punto si interrompe. Il rito mantiene quindi la sua componente misteriosa. I coriandoli, le stelle filanti e i carri allegorici poco hanno a che fare con la tradizione vera e propria. È nel giorno di Sant’Antonio con la danza intorno al fuoco che si incarna la vera dimensione dei Mamuthones. Quella giornata è per noi speciale, e coincide con la prima uscita. Un momento molto atteso e sentito dal nostro gruppo e da tutto il Paese. Come per un bambino il Natale. Diciamo che quella giornata è il nostro Natale vero e proprio.
La vostra fama ha varcato anche il Tirreno. Come siete percepiti dai cosiddetti “continentali”? Hanno un po’ di timore o di curiosità?
I più fortunati hanno conosciuto in maniera più approfondita la nostra storia, perché collaboravamo con i circoli dei sardi che organizzavano vari eventi. Abbiamo creato un legame. Naturalmente con la tv, internet e le ricerche antropologiche la notorietà e cresciuta a dismisura. Il gruppo della Pro Loco dei Mamuthones e Ishonadores è andato in Giappone in occasione dell’Expo 2010, a Cuba nel 1998 nell’ambito della manifestazione Ichnos e soprattutto in Bulgaria. Nel 2002 con lo stilista Antonio Marras, siamo stati invitati a Firenze nell’ambito del prestigioso premio “Pitti Immagine Award”.
Tutte esperienze indimenticabili.
Dicevamo della Bulgaria…
Pernik, è una cittadina che dista 80km da Sofia. Andammo la prima volta negli Anni Novanta. Il loro evento si svolge praticamente in concomitanza con sant’Antonio. È un raduno di maschere tribali provenienti da tutta l’area dell’Est europeo. Siamo stati ospitati più volte.
Avete trovato qualcosa di particolarmente simile alla vostre usanze?
Sì, anche là abbiamo visto delle maschere con dei campanacci e abiti in pelle di pecora. Ci sono molti tratti in comune con il popolo dell’Est Europeo, più di quello che possiamo immaginare. A Pernik abbiamo trovato, come dire, un’aria di casa. Un paese che per quanto lotti per adattarsi al mondo moderno vive molto di tradizioni secolari, ma anche di manifestazioni più recenti come quella del Festival Internazionale dei giochi in maschera. Come consuetudine la manifestazione avviene all’aperto e il direttore inaugura “Surva” il più grande Festival del Folclore in tutta l’Europa, accendendo il fuoco con un cerimoniale.
Sarebbe opportuno fare una ricerca più approfondita. Magari le similitudini con l’Est Europeo sono una delle risposte a quesiti secolari…
Sarebbe l’ideale. Le somiglianze, le similitudini sono molto forti e non escludiamo che in un futuro prossimo ci possano essere degli approfondimenti da parte della nostra associazione le cui finalità – ricordiamolo – sono la custodia e la promozione di Mamoiada e del suo patrimonio
Sarebbe opportuno fare una ricerca più approfondita. Magari le similitudini con l’Est Europeo sono una delle risposte a quesiti secolari…
Sarebbe l’ideale. Le somiglianze, le similitudini sono molto forti e non escludiamo che in un futuro prossimo ci possano essere degli approfondimenti da parte della nostra associazione le cui finalità – ricordiamolo – sono la custodia e la promozione di Mamoiada e del suo patrimonio
L’associazione può essere considerata il cuore pulsante della tradizione?
È stata costituita negli Anni Ottanta. Prima eravamo legati agli anziani, chiamato, appunto, “Il gruppo degli anziani” precedente le organizzazioni odierne. Avevamo una piccola sede, un ritrovo comune ma di certo non avevamo l’ organizzazione odierna. Le attrezzature le abbiamo comprate con gli ingaggi recenti. È un aspetto che incide molto sul bilancio. Prima si recuperavano le pelli e i campanacci semplicemente dai pastori. Loro ci davano un certo numero di campanacci, che venivano sotratti temporaneamente al gregge. La sera dopo il pascolo, venivano riportati al loro posto, dopo l’esibizione. Era decisamente una consuetudine impegnativa.
Tutto sembra sia sempre legato fortemente al mondo pastorale.
È sempre molto sentito. Nonostante la crisi, il legame rimane indissolubile perché di fatto ne preserva l’autenticità.
Anche all’interno delle associazioni, oggi, la figura del pastore è più difficile da individuare. Il nostro obiettivo è sempre stato quello di mantenere una memoria culturale nel nostro gruppo.
«Il legame col mondo pastorale rimane indissolubile perché di fatto preserva l’autenticità della tradizione»
Francesco Cardenia, presidente Associazione Atzeni
Osservare il mondo con gli occhi della maschera. Essere un mamuthone è qualcosa di oggettivamente particolare. Anche a livello mentale, c’è un’energia diversa, certamente un senso di responsabilità.
Quando ci caliamo la maschera sul viso, l’emozione è indescrivibile.
È come se fossimo catapultati in un’altra dimensione – ci racconta Franco Siotto del direttivo; vediamo il mondo con occhi diversi. Il pathos è tangibile e noi sentiamo l’adrenalina scorrere durante le nostre esibizioni. È un po’ come una missione. Senso di responsabilità senz’altro – continua Franco Siotto -, perché siamo i portatori di questa tradizione. La maschera dei Mamuthones penso sia la prima che abbia rappresentato la Sardegna e il mondo arcaico agropastorale della Sardegna. Sentiamo tutto il peso ( in tutti i sensi… – ndr) di questo vero e proprio mandato, soprattutto quando ci esibiamo fuori dall’ isola.
Un po’ come se dovessimo dare un messaggio.
Un valore certamente da preservare e tramandare…
È quello che intendiamo fare. Il momento della vestizione è speciale, sentiamo una carica, un’energia insolita – continua Franco Siotto. La facciamo all’interno del cortile dell’associazione, mai in pubblico. Usciamo solo quando siamo pronti. Anche questo fa parte del rito come calarsi nella parte del mamuthone. Il nostro temperamento, la sensibilità cambia. Appena vengono indossate le pelli, i campanacci sei già un’altra persona. Vivi un rituale. E noi non vediamo l’ora di rinnovarlo, ciclicamente, tutte le volte che la vestizione si avvicina. Ma è con la maschera che arriva il momento topico: vedo le persone festanti da un angolo privilegiato, con occhi diversi.
Percepite anche il senso di riguardo della folla per quello che rappresentate?
Sì, è palpabile. Veniamo accolti in maniera particolare. Questo avviene dappertutto indistintamente. Con affetto ed entusiasmo che si rinnova ciclicamente. Sentiamo il calore e la partecipazione durante le sfilate.
È corretto dire che durante la vostra esibizione convivono la curiosità rinnovata ma anche un certo timore reverenziale?
È un dato di fatto. Percepiamo anche noi le sensazioni e i sentimenti di chi ci applaude. L’accoglienza sempre trionfale come fosse sempre la prima volta. Veniamo considerati come uno dei patrimoni culturali della nostra isola da esibire con orgoglio anche all’Estero.
Il lancio della fune dell’issohadore fotografa un momento topico.
Ha un ruolo determinante. È spettacolare e scenografica. il lancio della fune -“Sa Soha”- è parte imprescindibile del rito propiziatorio che vuole essere legato a un segno di buon auspicio e fertilità. La donna viene così “catturata” dal lazo rituale conosciuto come l’allacciata. Il gesto, nella sua consuetudine, veniva sublimato spesso con un bacio da parte dell’issohadore. Tutti ormai conoscono e percepiscono le simbologie e la gestualità caratteristiche della processione.
Anche queste affondano nelle tradizioni pagane?
Risalgono a prima del cristianesimo. Sappiamo che certi riti sono stati convertirti e calati nelle devozioni verso i santi e, nel nostro caso, verso sant’Antonio Abate.
L’origine del nome Mamuthones? Nelle radici “Mamo”e “Mamu” abbiamo un’evidente assonanza…
L’origine esatta del nome non è conosciuta. Anche qui, inutile dirlo, il mistero esiste. Ma forse la tradizione è bella e sentita anche per questo. L’etimologia della parola potrebbe non essere mai svelata.
Datiamo i Mamuthones ad un’epoca remota e la storia del paese sembrerebbe viaggiare in parallelo. Mamoiada deriva da un sito che i romani hanno chiamato Mamuione, il primo nucleo abitativo del paese. Molti ricercatori hanno fatto un buon lavoro, ma il vero antropologo è quello che “vive” sul posto e si cala nel contesto. Per cui i veri antropologi, alla fine, siamo noi.
Quali studiosi sono arrivati in paese per approfondire la leggenda?
Il primo fu Raffaello Marchi, nuorese, personaggio complesso; aveva un’anima curiosa, con una dimensione poetica molto forte e bizzarra. Lui ha descritto il rito, la processione e l’abbigliamento.
Abbiamo collaborato anche con il professor Marcello Madau antropologo dell’Università di Sassari e fatto delle pubblicazioni. In proporzione alle nostre risorse facciamo delle ricerche.
È un nostro obiettivo andare più in là possibile e approfondire.
Anzi, più indietro possibile!
«Il vero antropologo è quello che “vive” il posto e si cala nel contesto. Per cui i veri antropologi, alla fine, siamo noi »
Nel gruppo fate delle prove durante l’anno?
Vengono fatte soprattutto dal cosiddetto “vivaio”, i bambini. Sono già consapevoli. Parte tutto dalla scuola materna. In braccio ai genitori cresce la loro consapevolezza. Come diceva Tziu Atzeni: “ Io sono nato mamuthone.” Abbiamo tre livelli: i bambini, i ragazzi adolescenti che sono quelli che affiancano noi anziani. Certo, tutti siamo consci che qualche piccolo cambiamento è stato inevitabile, come quello nell’abbigliamento di cui dicevamo prima.
Ma la danza è rimasta sempre quella: la cadenza, il ritmo e i campanacci che suonano simultaneamente.
Il senso di appartenenza è fondamentale?
Certo. Il giorno di Pasqua in parrocchia, i bambini della scuola dell’infanzia vengono vestiti da angioletti, e hanno sulle spalle oltre le classiche ali anche dei piccoli campanacci. Dovrebbero sfilare normalmente. Invece nella processione simulano le movenze dei grandi attirando bonariamente le ire del parroco. È la dimostrazione che buon sangue non mente.
Una tradizione articolata come la vostra ha fatto nascere dei dibattiti?
Solo per quanto riguarda la maschera dell’issohadore del gruppo della Pro Loco, un accessorio venuto alla luce di recente. In questo caso la maschera rappresenta, chiamiamolo “un limite” alla visuale. L’issohadore, a differenza del mamuthone, deve avere infatti un raggio visivo molto ampio, perché lanciando “sa soha”, la fune, deve essere facilitato nel gesto.
Una innovazione rencente che ha fatto discutere.
In alcune fotografie del passato indossano una maschera di cartapesta bianca, Sa Maschera de Santa. Ma era prettamente carnevalesca, inserita nel contesto festante quando si trasgrediva anche con accessori impropri, come ad esempio, il berretto da bersagliere e altre maschere. Non ci sentiamo quindi di considerarla attinente la tradizione.
Ci sono dei gruppi che nella sfilata hanno movenze simili alle vostre?
Il lancio della fune è un gesto unico. Abbiamo invece incontrato altri gruppi con i campanacci ma a differenza dei mamuthones non hanno un passo da processione, dal ritmo cadenzato. Le loro gestualità e i movimenti non sono coordinati come i nostri. La nostra è proprio una danza rigorosa e cadenzata, ordinata nei passi.
Gestualità apparentemente banali ma che richiedeno una certa coordinazione.
Lo sbatacchio della rosa dei campanacci deve essere simultaneo durante la sfilata. Il loro peso è notevole. Quello che dà più fastidio sono le cinghie che comprimono la cassa toracica e non ci permettono di respirare regolarmente. Ma d’altra parte lo sfregamento delle stesse darebbe problemi alla cute. Le cinghie allentate comprometterebbero l’effetto sonoro e in quel caso ogni campanaccio suonerebbe diversamente. Si percepirebbe all’istante. Bisogna essere in grado di gestire la respirazione, allenare il corpo. Insomma essere in grado di governarlo.Bisogna saper gestire anche il fiato, le sfilate d’altronde per noi non sono una passeggiata. Ma sopportiamo volentieri “il fardello”.
Pensate nei mesi caldi…
Quanti compongono, oggi, il gruppo tra Mamuthones e Issohadores?
Il gruppo di solito è di 12 componenti più 8 issohadores. Naturalmente ruotiamo, perché qualche volta dobbiamo mettere nel conto delle partenze, delle defezioni. Sono quindi necessari almeno due gruppi.
Quali sono delle caratteristiche particolari per far parte dei mamuthones?
È imprescindibile “essere del paese”. Direi basilare.
È scritto nel nostro Statuto. Non è un diritto che si acquisisce venendo, ad esempio, ad abitare nel paese. C’è stato sporadicamente qualche issohadore, ma sotto questo aspetto siamo molto severi e intransigenti. Non facciamo neppure assistere alla vestizione ed è raro che qualcuno possa indossare il costume. In tanti chiedono… Ma è un modo per preservare e rendere unico e particolare il nostro patrimonio culturale.
La fama vi ha raggiunto ormai in tutto il mondo… Ma il centro nevralgico rimane il paese.
La popolarità è cresciuta col tempo. Anche la vestizione in paese rimane speciale. Cambia totalmente l’atmosfera e il contesto. È più forte, viscerale. Soprattutto nell’occasione, come detto, di Sant’Antonio. Dà una carica speciale. Per noi è una seconda pelle sentita tutto l’anno. Anche se, ovviamente, il giorno di sant’Antonio è Il momento cruciale. I preparativi iniziano un mese prima con selezione dei ceppi di legno per i falò. Il paese va in fibrillazione e tutto assume un contorno quasi mistico. È il nostro Natale. L’eco dei campanacci che risuona mette i brividi . È un momento celebrativo e per molti emozionante, letteralmente fino alle lacrime. Anche per quelli che non fanno la vestizione – dice sempre Franco Siotto-.
La comunione dei Mamuthones col Paese… E viceversa.
Certo. Tutti hanno una parte attiva e si sente una certa tensione, è normale. Lo viviamo come un mandato che ti accompagna tutta la vita. L’immane lavoro svolto, viene ricompensato dall’organizzazione corale: dalle famiglie alle strutture ricettive…
Nell’allestimento dei fuochi tutti i rioni danno il loro massimo – incalza Augusto Sanna del direttivo – e la stanchezza diventa un dettaglio trascurabile.
È bello sentire questa convivialità. Traspare un tacito patto di fratellanza.
È davvero un’emozione unica per tutti, per noi in costume e per la folla che aspetta. Il momento topico è quando apriamo i portoni: il vociare della folla che freme raccolta, in trepidazione. Quello dà la dimensione dell’evento. Come se stessimo per compiere una missione. Inizia così il rito propiziatorio per il paese intero. Essere mamuthone coincide un po’ con la nostra vita. Tutti i giorni, anche le occasioni conviviali e il quotidiano, sono motivo di confronto e di crescita. La casa del nostro fondatore Costantino Atzeni (Tziu Atzeni), è una tappa obbligata e molto significativa. Lì ci soffermiamo più tempo. Rendiamo lui omaggio con una coreografia più particolare e sentita – racconta Augusto Sanna -.
Vuoi parlarci dell’amicizia con la Dinamo Sassari?
Sono e siamo di casa. Il parquet del palazzetto è stato uno scenario insolito per la nostra danza. Fu Gara4 per lo scudetto contro Reggio Emilia, nel 2015. È stato indimenticabile. Direi che il rito propiziatorio ha portato bene visto che la Dinamo si è laureata campione d’Italia una settimana dopo. Due mondi apparentemente lontani che si incontrano. Abbiamo fatto insieme un calendario. Ricordo Logan. Lo abbiamo vestito da mamuthone e abbiamo fatto un falò; l’ho visto un po’, come dire, spaesato. Forse non si è reso conto completamente di cosa stesse succedendo… È sicuro: non conosceva la tradizione (risata ndr).
Quando avete avuto la percezione che c’erano delle curiosità vostra storia?
Un punto di svolta, c’è stato quando antropologi come Marchi, di cui dicevamo prima, seguivano e studiavano la nostra danza. Lui ha visto i bambini di ieri diventare i grandi di oggi. Anche i circoli sardi sono stati determinanti: avevano un interesse particolare: il richiamo della terra madre era sempre forte. Questa consuetudine è andata avanti per molto tempo. Avevamo un’accoglienza particolare… L’ultimo dove siamo stati, è il circolo sardo all’Isola d’Elba.
I Mamuthones sono un patrimonio della Sardegna. Tutti i sardi li sentono ormai parte della famiglia isolana e non solo…Ormai siete una celebrità anche nella penisola…
Quello che mi ha gratificato quest’anno, è stata la maschera dei mamuthones nei biglietti della lotteria Italia. Ogni regione aveva la sua e la Sardegna è stata rappresentata da noi.
L’occasione è comunque gradita per ricordare anche le altre maschere. Oltre i Mamuthones, i Merdules di Ottana e Thurpos di Orotelli, tutte maschere barbaricine, con i quali stiamo creando un protocollo d’intesa per preservare le maschere.
I Tazenda avevano dato il titolo a una loro canzone, omaggiando il paese (“Mamojada” dall’album “Murales del 1991, ndr). Tra l’altro molto significativa.
Quella canzone è rimasta nella memoria collettiva. Fa parte della nostra storia. Per noi fu una sorpresa questo interesse della band… Tutto è iniziato con una telefonata al Comune di Andrea Parodi e Gigi Camedda. Certamente conoscevano la storia di Mamoiada molto bene. Hanno voluto fare questo pezzo e per noi è stata una piacevole sorpresa. Anche il video, molto suggestivo, è stato girato nel nostro territorio.
È rimasta l’amicizia e gli siamo sempre molto riconoscenti.
La musica è un volano straordinario per comunicare.
Senza dubbio. La canzone Mamojada l’abbiamo sentita spesso mentre sfiliamo in tanti paesi della Sardegna. È diventata un po’ una colonna sonora che cantano tutti. Un po’, se vogliamo, ha finito con identificarci. Ma è il testo particolare. Parla di alcuni aspetti della nostra storia, di faide. I Tazenda si sono documentati molto per scriverla. Si parla della voglia di rinascere di combattere aspetti che fortunatamente ora fanno parte del passato. Ha portato un’aria diversa, perché è cambiato il tessuto sociale di Mamoiada. Dopo questa canzone c’è stata una svolta significativa, direi epocale. Ha scosso le coscienze. Ha fatto capire alle persone che è necessario parlarsi per arrivare ad una soluzione, a un compromesso.
Un vostro ricordo di Andrea Parodi.
Andrea, metteva davanti a tutto i rapporti umani. Per Lui erano la base. E poi la musica non gli bastava mai. Dopo i concerti qui in paese, continuava a cantare con la chitarra in qualche cantina, fino all’alba. Di animo spontaneo, umile, amava la convivialità e la condivisione. È stato sempre un gran signore.
Vuoi aggiungere qualcosa di particolare. Qualcosa che non ti ho chiesto, che ci tieni a dire ai nostri lettori…
Gli eventi si susseguono tutto l’anno ( quando leggerete queste righe i Mamuthones della Pro Loco avranno aperto il Carnevale di Venezia ndr). E poi vogliamo continuare gli studi le ricerche per conoscere e codificare il lontano passato; e ancora il desiderio è COINVOLGERE e seguire i bambini in questo cammino.