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FRANCISCU, UN’INDIPENDENZA DA MANUALE
Non è difficile cogliere l’attaccamento di Franciscu Sedda alla sua terra, che va ben oltre il nome convertito alla lingua romanza arcaica. E’ la devozione ad un’isola ben individuata dall’insieme delle sue conoscenze che, se da una parte mostrano una Sardegna ricca di potenzialità, dall’altra le rimproverano di non aver mai imparato ad essere serenamente isolana. Lo stimato professore sardo tabarchino, dell’isola di San Pietro, sfodera i sorrisi delle argomentazioni, consolidate dai suoi svariati studi e da una bibliografia incline alla saggistica. Senza troppe manie. E fa della trasparenza oratoria il suo leitmotiv.
Professor Sedda, sembra che i sardi abbiano smarrito l’idea di un progetto di vita condiviso, sardo, appunto. Alla luce di ciò sentono realmente la necessità di indipendenza? Se sì, perché stilare un manuale che li guidi?
Quando pensano a se stessi, i sardi si rendono conto di avere delle potenzialità enormi e di poter essere una nazione nel mondo. Però, essendo questa una realtà ancora lontana dal loro presente si crea una situazione di sconforto, frustrazione e inadeguatezza. Credo sia dovuto, almeno in parte, ad una coscienza storica che abbiamo lasciato ci venisse tolta e che, in qualche modo, ci siamo inflitti. La nostra storia è tutta da rileggere. Se ci è sembrata così povera ai fini istituzionali alti è perché l’ abbiamo guardata con occhi sbagliati. Non abbiamo cercato il positivo, ciò che dai tempi dell’epoca romana riconosceva la nostra diversità e ci siamo privati della nostra consapevolezza; il primo criterio per la ricostruzione del nostro tessuto connettivo. Del resto, l’indipendenza cresce nella consapevolezza ed è importante tradurla in una pratica concreta. A questo mira il manuale. A lavorare per una nuova identificazione e una più profonda autocoscienza di noi sardi. A riflettere sul nostro posto nel Mediterraneo, in Europa e nel mondo.
Manuale di Indipendenza nazionale. Dall’identificazione all’autodeterminazione. Qual è il processo che le coniuga?
E’ necessario chiarire che identificazione non è identità. Laddove quest’ultima è tradizione sacra, presente immutabile nella sua confortante pigrizia, l’identificazione è ricerca, processo sempre aperto e come tale difficoltoso. Questo ha portato ad una serie di paure sfociate nell’idea che l’emergere di uno stato sardo sul palcoscenico internazionale si configurerebbe come una stramberia. Eppure ben dieci stati europei sono più piccoli della Sardegna. Fortunatamente, ciò che oggi i sardi stanno iniziando a percepire è che essere uno stato indipendente è una pressante necessità per provare a difendere e promuovere i propri interessi ed evitare che altri decidano per loro conto. Il problema sta nel perseguire questa strada con convinzione e maturità.
Da semiologo quale è, può fare un parallelismo tra i fenomeni di significazione e il manuale?
Per la semiotica, le culture sono delle reti di significato, cioè vanno mantenute unite dal significato che
condividiamo e produciamo insieme. Un grande antropologo semiologo ha sostenuto che noi generiamo le reti che ci contengono. Siamo, allo stesso tempo, i produttori e il prodotto. In Sardegna ho rilevato da sempre una mancanza di senso. O meglio, abbiamo stravolto a tal punto la nostra storia da non ritrovare più un concetto unitario; un significato che ci faccia sentire parte di un percorso millenario. Perché è chiaro che se io percepisco di avere dietro 5mila anni di storia che tendono in una direzione, mi sento spinto all’azione. Se, invece, mi volto e vedo un deserto di macerie, io rimango immobilizzato. Ecco perché noi sardi abbiamo questa ossessione dell’identità. E dunque ci voltiamo indietro a domandarci chi siamo. Purtroppo, la nostra esperienza scolastica è mutilata. Non abbiamo la sovranità sull’ istruzione, lasciata al buon cuore di qualche istituto scolastico nei programmi integrativi. In definitiva, condividere una rete di significati indica sapere che abbiamo un terreno comune su cui ci comportiamo da esseri umani sardi, rispetto al mondo.
Come deve essere la rivoluzione dei sardi?
Mi piace rispondere con un’immagine del poeta Montanaru che invitando i sardi, nel 1922, ad avere il coraggio di scorgere la Sardegna come una patria, diceva che noi abbiamo il cuore seccato come l’uva passa. Niente di più vero. Si è risecchito. E possiamo dargli vita solo con l’entusiasmo, le idee e l’impegno. Con la capacità di sapersi nutrire anche di piccoli risultati. Possiamo completarci nell’azione, senza aspettare che lo facciano gli altri. Lo sport in cui tutti siamo campioni è nel dire ciò che non va. Necessita una nazione moderna, fatta di pluralità, di punti di vista, di coralità. Lo spirito di fondo deve guardare alla soluzione dei problemi, non al murrungio.
Il cuore dell’indipendentismo è lo stato: cosa occorre per diventare uno stato sardo?
E’ molto importante ripartire dalle basi. “Senza le basi, scordatevi lealtezze”. E il basamento è questa dimensione affettiva, coscienziale e di cuore, che introduce elementi di testa. Al di là dell’ideologia politica non bisogna dare per scontato la conoscenza della Sardegna e dell’ indipendentismo stesso, ma scoprire che c’è un indipendentismo nuovo che pone le cose in maniera diversa. In generale la teoria deve abbracciare la pratica poiché da sola diventa utopismo. E Il pragmatismo diventa clientelarismo, tatticismo banale. Dobbiamo fare in modo che una cosa equilibri l’altra e che un’azione abbia dietro una grande idea. E quest’ultima possieda l’umiltà di concretizzarsi. Piccoli passi con grandi visioni dentro.
Qual è la sua aspirazione?
Spero di vedere la Repubblica di Sardegna e di esserne anche protagonista. Se così non fosse, ho la consapevolezza che adoperandomi bene ora, lascio qualcosa di importante da proseguire. Senza dover cominciare daccapo.
Roberta Gallo
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