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A Luras la sorprendente vita del millenario “S’Ozzastru”, tra storia e leggenda
Magia, mistero e spettacolari ambientazioni paesaggistiche si fondono in un territorio dove hanno convissuto per secoli granito, querce da sughero e figure femminili scure come la notte
Nel cuore selvaggio della Gallura, nel Comune di Luras, a pochi passi dal lago Liscia si erge, maestoso e possente, “S’Ozzastru”, probabilmente l’albero più antico d’Europa, dichiarato nel 1991 monumento naturale e inserito nella lista dei “20 alberi secolari d’Italia”.
L’esemplare di Olea europaea var. sylvestris, secondo accurate stime dell’Università di Sassari potrebbe avere circa 4.000 anni. Per avere un’idea della sua longevità bisogna fare qualche considerazione e molti passi indietro: mentre l’olivastro cresceva rigoglioso gli Ittiti prendevano possesso dell’Anatolia; i palazzi di Cnosso iniziavano ad essere eretti e, di lì a poco, sarebbe nata la mitologica città di Micene; ha visto nascere la Civiltà nuragica; i Fenici sarebbero sbarcati in Sardegna solo un millennio più tardi; la fondazione di Roma era ancora lontana; continuava la costruzione di Stonehenge. Stiamo parlando, quindi, di un organismo vivente nato probabilmente durante la media Età del Bronzo.
La sua altezza sfiora i 15 metri, la circonferenza del tronco è di quasi 12 metri e la sua chioma copre una superficie di 600 metri quadrati. Oggi il sito è recintato con una staccionata lignea e sorvegliato per garantire una reale tutela e conservazione di questo straordinario patriarca verde, che in passato, purtroppo, ha rischiato di esser vittima di spregevoli atti di vandalismo.
Il suo tronco è segnato da nodi contorti, avvitamenti del fusto, spaccature. Il tempo ha segnato inesorabilmente la sua struttura ma la sua chioma, per secoli, ha donato ombra e protezione a greggi e animali selvatici, a giovani pastori che magari riposavano sotto i suoi rami. Le sue cavità, con i chiaroscuri dettati dalla luce del sole, ricordano spesso maschere sarde intagliate nel legno e bloccate per sempre in un ghigno beffardo.
A far da sfondo a questo straordinario monumento naturale Il lago Liscia , che mostra timido i suoi giochi di colori e ombre attraverso le fronde stesse dell’olivastro, accompagnandone albe e tramonti in un turbinio di emozioni e sentimenti immortali come i suoi protagonisti.
Le sue acque imperturbabili sono solcate da un battello in perfetto stile Mississippi, il Pollux, (gestito dalla “Società Navigazione Dei Laghi”) che proietta in una dimensione fuori dal tempo una trama cangiante di sfumature e profumi.
Grande compagno di avventure il Trenino Verde che nel suo percorso da Palau a Tempio Pausania fa una sosta proprio sul Lago Liscia attraversando paesaggi sempre diversi: dai graniti rosa della costa a quelli grigi dell’entroterra, dai boschi di querce da sughero agli olivastri millenari, dai vecchi stazzi ai vigneti.
«…Ma ancora mi ricorda Malta. Persa tra Europa e Africa, appartiene a nessun luogo. Appartiene a nessun luogo, non essendo mai appartenuta a nessun luogo. Alla Spagna e agli Arabi e ai Fenici, più di tutto. Ma come se non avesse mai veramente avuto un destino. Nessun fato. Lasciata fuori dal tempo e dalla storia».
Così scriveva D.H. Lawrence nel libro “Mare e Sardegna” dopo un viaggio di soli 10 giorni. Nel 1921, David e sua moglie Frieda (da lui chiamata “Ape Regina”) sbarcano in Sardegna. Salgono su un’elegante carrozza ferroviaria in legno e ottone del 1913, la stessa che ancora oggi, insieme al battello del Liscia, riesce a donare uno straordinario viaggio nel tempo.
Dalle annotazioni dello scrittore inglese nascerà una delle descrizioni sulla Sardegna più originali ed evocative. Un breve viaggio nel quale Lawrence colse particolari mai notati prima da un turista.
Un territorio ad alto impatto archeologico, storico, ambientale e naturalistico quella di Santu Baltolu di Carana testimone di epoche e usanze lontane e custode di altri esemplari di ulivo eccezionali, alcuni vantano un’età centenaria altri addirittura millenaria. Come nel caso dell’Olivastro che si erge a pochi metri da “S’Ozzastru” e annovera circa 2000 anni di storia.
Lo stesso paese di Luras, inoltre, può vantare parecchie altre perle archeologiche e storiche, quali ad esempio i Dolmen (dal bretone tol-men, tavola di pietra), monumenti funerari costruiti a partire dal Neolitico recente (3500-2700 a.C.), che da queste parti hanno una concentrazione come in nessun’altra zona dell’Isola.
Nel territorio comunale infatti se ne possono trovare e ammirare ben quattro dei 78 totali di tutta la Sardegna, tutti disposti nel centro abitato o nelle sue immediate vicinanze. Il più grande e per certi versi il più affascinante dei quattro, è il Ladas. Perfettamente inserito nel nel contesto circostante è ben noto come testimonianza di allèe couverte e presenta ancora integre le peculiarità tipiche di queste sepolture, fatte da grossi lastroni laterali si cui poggia un’unica grande lastra superiore.
Vi è poi a poca distanza il Dolmen Ciuledda, che benché registri dimensioni assai ridotte, è molto simile nella sua struttura al Ladas. Il Dolmen Bilella è un po’ più distante, ma facilmente raggiungibile ed accessibile. La sua particolarità è dovuta anche al suo orientamento che, a differenza degli altri che puntano normalmente verso una stella, si proietta verso occidente.
Il Dolmen Alzoledda, infine, con struttura più semplice, è il più piccolo e costituito da tre lastroni sottostanti sul quale monta un lastrone di granito e si trova nei pressi del campo sportivo comunale.
La storia del territorio si è legata recentemente anche al cinema in quanto protagonista di alcune riprese, escluse purtroppo dal montaggio finale, dell’ormai noto “Il Muto di Gallura” (2021), film di Matteo Fresi che riprende il romanzo storico di Enrico Costa scritto nel 1884 e basato sulla vita di Bastianu Tansu, leggendario bandito gallurese sordomuto dalla nascita ma con una mira infallibile. Per questa sua “dote” verrà utilizzato dalla propria famiglia (i Vasa) contro i Mamia. Una faida familiare che rende indelebile vita, morte, amore nella Sardegna del XIX° secolo. Un’isola dura come le pallottole che, per anni, colpiscono anime. Dura come il gallurese, la lingua che scorre come il sangue e l’acqua.
Poi, le leggende e le storie popolari che si intrecciano con una quotidianità che affonda ancora le sue radici nella natura e nei suoi misteri.
Pare che all’interno del Patriarca dimorassero degli spiriti maligni e che dal suo legno si fabbricasse il martello dell’accabbadora, “su mazzoccu” utilizzato per porre fine ai dolori di una persona particolarmente sofferente. L’acabbadora, colei che da la vita e la morte. Ancora una volta due piani ancestrali che si intersecano e si confondono.
Un’altra leggenda narra di un pastore che, verso la fine dell’ ‘800 e i primi anni del ‘900, ricevette in sogno una disposizione ben precisa: “A cento passi dalla chiesa di Santu Baltolu di Carana troverai un tesoro“. Effettivamente, a cento passi sorge l’olivastro. Non si hanno conferme ne smentite su questo fatto prodigioso ma restano alcune prove inconfutabili: esiste una cavità nell’albero non ascrivibile a cause naturali ma alla mano dell’uomo nella quale si poteva ricavare un perfetto nascondiglio. Il pastore che fece questo incredibile sogno, poco tempo dopo, acquistò un terreno prestigioso e numerosi capi di bestiame avvalorando l’ipotesi della reale esistenza di un tesoro, forse delle monete.
L’unico modello di mazzoccu giunto fino a noi è visibile proprio nel Museo Etnografico “Galluras” di Luras, dove sono conservati anche oggetti della vita contadina. Era il 1981 quando Pier Giacomo Pala sente parlare della figura dell’acabbadora. Appassionato di tradizioni popolari e storia della Sardegna, decide di cercare delle testimonianze sulla sua esistenza a Luras. La sua ricerca sarà lunga e faticosa. Studi complessi, raccolta di oggetti della vita quotidiana, racconti di anziani, parole non dette, mistero e puzzle da comporre. Riesce a provare l’esistenza di dieci acabbadoras solo nel piccolo centro di Luras ma non basta. La sua attenzione si focalizza su una donna in particolare che pare sia vissuta nelle campagne del paese. Inizia un’indagine accurata. Viene trovato un vecchio stazzo.
Ma è nel 1993 che, ormai perse le speranze, accade qualcosa. Alcuni operai stanno demolendo la costruzione e, con essa, parte del muretto a secco che ne delimita la proprietà.
«Durante la pausa pranzo degli operai mi avvicinai al muretto constatando che sarebbe stato demolito un altro pezzo di storia della Sardegna. Risaliva sicuramente al periodo dell’ Editto delle chiudende, quindi alla prima metà del XIX° secolo. Il mio sguardo si posò su un masso diverso dagli altri, più squadrato, rettangolare. Rimossi un cuneo di pietra e quello che vidi, istintivamente, mi portò ad allontanarmi sconvolto. Non realizzai subito di cosa si trattava. Era quello che stavo cercando da 12 anni, il martello dell’acabbadora avvolto in pezzi di orbace». Mentre racconta questo episodio quasi mistico, si percepisce ancora, nella sua voce, l’emozione che lo investì quel giorno e che avrebbe caratterizzato tutta la sua vita.
Tre anni dopo nascerà il Museo Etnografico “Galluras” (del quale Pier Giacomo Pala è direttore e curatore), racchiuso in un palazzo del XVIII° secolo semplice nella sua austera eleganza. Il granito è la pietra viva che trattiene i ricordi di una vita e li restituisce con una commovente attenzione per i particolari. Una vita fatta di fatica, lavoro nei campi, allevamento del bestiame, intensi riti religiosi che spesso sfociano nella superstizione e si perdono in tempi antichissimi.
Nel suo libro “Antologia della femina agabbadora”, dove analizza la figura enigmatica di donne che, oltre a fare le ostetriche si occupano del dolore dei malati terminali, parla anche di un’ultima testimonianza risalente al 2003. Si tratta di una donna di 85 anni che abita in un paesino vicino Bosa. Fa una confessione al prete giunto in paese solo per un giorno in sostituzione del parroco ufficiale. Lei è un’acabbadora e ha appena alleviato le sofferenze di una persona malata tappandole bocca e naso. Sa che la sua identità non potrà essere svelata e la sua coscienza si alleggerisce.
Storia e leggende, realtà e superstizioni. Come il rito del modellino del giogo dei buoi posizionato sotto il cuscino del malato. La tradizione popolare vuole che il prolungamento dell’agonia sia dovuto a un peccato grave o all’aver bruciato un giogo simbolo di vita. Questo rito (che, a seconda delle zone, contemplava anche la presenza del pettine da telaio al posto del giogo) serviva per riconciliare il peccatore con Dio e farlo morire più velocemente. Se la morte non sopravveniva entro tre giorni la famiglia del malato era autorizzata a richiedere il servizio dell’acabbadora.
Dunque, l’olivastro millenario non poteva trovare collocazione migliore: una terra legata a riti antichi ed enigmatici che ancora oggi suscitano un rispettoso timore. Particolarmente interessato all’albero millenario anche l’architetto milanese Stefano Boeri amante della Sardegna e dei suoi luoghi mistici così importanti soprattutto in questo periodo di confusione spirituale. Tra i suoi innumerevoli lavori si possono citare il “bosco verticale” di Milano e la ristrutturazione dell’ex arsenale di La Maddalena per il G8 del 2009 che, purtroppo, venne bloccata causando delusione e amarezza.
L’architetto di fama mondiale ha sempre dedicato alla natura un posto privilegiato. Nell’installazione del “bosco verticale” colloca nella struttura 700 alberi e 20.000 piante dando vita ad un prototipo abitativo dove la vegetazione diventa un tassello importante e irrinunciabile. Un modello esportato con successo in tutto il mondo.
Il legame di Boeri con S‘Ozzastru è, quindi, il naturale proseguimento personale e spirituale della sua attività di architetto. Quasi un’indispensabile esigenza di assorbire, tramite la sua energia millenaria, un senso di pace e rinascita dopo un periodo intriso di incertezze. Un modo per fermarsi un attimo e respirare. Per capire e realizzare che il Pianeta e l’Uomo hanno bisogno di cure.
Proprio come la mostra organizzata dalla Fondazione Stazione dell’Arte inaugurata il 20 giugno del 2021 a Ulassai per celebrare l’arte di Maria Lai e la fusione natura/uomo portata avanti da Boeri. Il progetto era stato battezzato “Sii albero”.
Una correlazione di idee che guarda al futuro di un Uomo sempre più fragile ma che grazie alla Natura potrebbe portare a compimento la sua salvezza.