Tempio Pausania – Al Teatro del Carmine Jashgawronsky Brothers in ToyBoys
Il bianco e il nero, i chiaroscuri della psiche nel romanzo di Isabella Mastino
Un filo rosso unisce l’autrice di “L’Ellissi” con Grazia Deledda, un filo fatto di storie raccontate con l’anima. Cinque persone si ritrovano a scavare nei meandri della loro psiche inscenando, ciascuna, un monologo
Incontro Isabella in una mattina di dicembre. Il sole è pallido ma, timidamente, cerca di farsi spazio tra i distratti gesti quotidiani. Ci sediamo al tavolino di un bar, all’aperto. L’atmosfera natalizia è un leggero luccichio intermittente, qualche busta con i regali da mettere sotto l’albero, i bambini che terminano il loro ultimo giorno di scuola e portano a spasso la mente nei loro voli pindarici.
Isabella ha un sorriso immenso e sincero e due occhi grandi nei quali si possono leggere tutto l’entusiasmo per il suo progetto. Un entusiasmo contagioso, perché nelle domande che le farò so già che quel progetto, quella missione dovrebbero essere un po’ anche i nostri.
Isabella è un concentrato di vitalità e forza, è una donna che sa andare controcorrente dosando dolcezza e fermezza. Lo studio del pianoforte al conservatorio, una figlia amatissima, la laurea a 23 anni in giurisprudenza con il massimo dei voti , esame di Stato a 25 anni come avvocato, dottorato di ricerca a 28 anni, la partenza per la Germania e la possibilità di lavorare per l’università tedesca per un periodo di 6 mesi. Le offrono un posto da ricercatrice in Germania e la prospettiva di una brillante carriera. Ma succede qualcosa. Il richiamo della propria terra è forte, l’amore per la letteratura è un vento di burrasca che spezza tutte le certezze.
In un momento di sconforto arriva in suo aiuto la donna che ha scardinato tutti i falsi miti sulla letteratura femminile: Grazia Deledda. Scrivere di lei diventa una terapia, un’esigenza. Un incontro folgorante che la porterà, a partire dal 2013, a studiare i suoi romanzi e a capire la struggente bellezza e profondità di quella donna che aveva ricevuto un Premio Nobel ma che era stata dimenticata e sepolta dalla critica, osteggiata e derisa. Decide di raccogliere in un’antologia i suoi romanzi, soprattutto quelli meno conosciuti. Sperimenta con la figlia i racconti semplificati delle trame e, vedendo che l’idea funziona, va avanti per la sua nuova strada. Pubblica due antologie: “Ma io non vedevo quella luna” e “Il Viaggio”, entrambe nel 2019.
Nel 2021 esce il suo primo romanzo, L’Ellissi (Echos Edizioni). Cinque persone si ritrovano a scavare nei meandri della loro psiche inscenando, ciascuna, un monologo. Diretti da un amico in comune, Edoardo, raccontano episodi significativi della loro vita in un crescendo di emozioni. Il finale inaspettato insinuerà interrogativi esistenziali nei lettori che hanno imparato a conoscere i personaggi attraverso i colori della loro anima. Lei stessa disegna la copertina e a realizzarla sarà il suo fidanzato Max Turrini, fotografo professionista da più di vent’anni, grafico, videomaker e 3Dartist, che ha realizzato non solo tutte le copertine dei suoi libri, ma le gallery fotografiche dei suoi eventi (più di cento) e i video sul suo canale YouTube, diventando parte integrante del suo lavoro. Max è il suo primo lettore e sostenitore, per questo motivo i libri di Isabella sono come persone di famiglia, dotati di vita propria, sentiti, amati e vissuti.
– “L’Ellissi” è un titolo particolare. La sua importanza è affidata ad una donna che Nina, uno dei personaggi, incontra dallo psicoterapeuta. Si tratta di un cameo ma lei ha in mano la chiave per svelare al lettore il significato del titolo. In realtà si tratta di una paziente della clinica psichiatrica che racchiude una saggezza fuori dal comune.
Ti ringrazio per averlo notato. Si, esatto. Sono molto legata a quella donna e mi piace soprattutto la funzione che ha nei confronti di Nina perché con poche parole le darà la chiave di lettura per affrontare l’esistenza e i suoi aspetti più travagliati. In alcune fasi della vita anche io mi sono sentita un’ellissi e ho voluto dare un messaggio di speranza.
La donna che Nina incontra nel reparto di psichiatria le rivelerà una dura realtà: ” La ruota su cui girava la mia vita aveva perso tutti i raggi, spezzati a uno a uno con incuria. Una ruota sbilenca, senza più sostegno che ne garantisca la forma e la durata, si piega sotto il peso della sua rotondità vuota che piano piano perde la sua perfezione per trasformarsi in un’ellissi. Un’ellissi che non gira più”.
– C’è qualcosa di autobiografico nel tuo romanzo?
Di autobiografico ci sono sicuramente le sensazioni che provano i personaggi e che sono state anche le mie in svariate situazioni della vita. Ogni racconto racchiude un personaggio che affronta i problemi in maniera differente. Dunque ciascuno rappresenta una mia sfaccettatura. Tra l’altro i primi due racconti nascono da una scissione. Originariamente il racconto era incentrato su Sebastiano ma mi accorsi che mi interessava il punto di vista dello zio, Manlio, figura inizialmente negativa. Mi piaceva descrivere il senso di delusione che è molto più frequente di quanto non si pensi.
A volte ci fissiamo su un’idea preconcetta e la portiamo avanti anche a dispetto dell’evidenza. In questo caso Sebastiano e Ines sono invece delle persone che guardano in faccia la realtà e, seppure con dolore, capiscono che tra loro non può nascere l’amore. C’è una frase di Umberto Galimberti nel suo libro “Le cose dell’amore” che dice «Spesso la brutalità finale rivela l’insincerità iniziale» e volevo evitare proprio questa situazione all’interno del racconto. Cosa che invece farà Jole.
– A proposito di Jole. Si tratta di un personaggio drammatico fortemente racchiuso in schemi mentali difficili da abbattere. L’attacco di panico che la colpirà all’inizio del racconto sarà il principio di una sua presa di coscienza.
Jole, nel voler aiutare Alberto a tutti i costi, crede di essere innamorata invece cerca di sedare un suo vuoto personale. Ha un’idea quasi sacra dell’amore e, in realtà, non accetta la condizione di disabilità di Alberto. Vuole farlo felice ma, non essendo lei davvero felice, non può trasmettere un amore sano.
– Ogni personaggio ha fame di vita e affronta questa necessità in maniera diversa. Jole fugge di casa durante il suo attacco di panico e cerca conforto nella folla ma si sente ancora più vuota. Entra in una chiesa. Lei e Alberto sono come due candele consumate dalla vita.
Esatto. Alberto è una candela che si spegne in modo repentino. Jole si dispera per un mancato bagliore che riacquisterà piano piano perché lei ha ancora fame di vita, non ha vissuto quell’amore che sognava, non ha ricevuto quell’amore che sperava. Per lei il lutto è stato necessario per capire se stessa e andare avanti.
– L’elaborazione di un lutto è stata necessaria anche per un altro personaggio.
Si, per Nina. La morte del fratello è stata un bivio. Lei si appoggiava al fratello e non aveva una vita propria. Era come l’edera (e qui sorride perché il riferimento a Grazia Deledda è automatico) che senza un appoggio non può sopravvivere. Ma volevo dare ai miei personaggi e ai lettori un messaggio di speranza, un modo per poter fare il passo successivo, quello più importante, e riprendersi l’esistenza che stava sfuggendo di mano.
– Esiste un legame fra questo barlume di speranza de “L’Ellissi” e l’immagine della luna che compare sempre nei romanzi di Grazia Deledda?
Tantissimo. Un legame stretto. Lo dice la Deledda stessa in un romanzo poco conosciuto, “Annalena Bilsini”, «La luna è la pupilla d’oro nel cielo azzurro che pare l’occhio stesso di Dio».
La luna è la luce nel buio che spesso non vediamo. I protagonisti dei suoi romanzi non vedono mai la luna eppure Grazia Deledda la descrive sempre prima di ogni vicenda importante.
In un altro libro dice che dentro di lei. Poi ancora una sua bellissima frase «Noi non morremo mai finché una scintilla d’amore sia pure in apparenza di odio germinerà in noi come il seme nella terra gelata». Credo molto in questo messaggio di speranza e volevo che anche i miei personaggi ne fossero avvolti, che avessero un punto di luce da seguire durante la tempesta. Credo nel destino benevolo che alla fine ci aiuta a sopportare i nostri errori.
– Tutti tuoi personaggi affrontano degli episodi molto difficili. Anche lo stesso Cristiano che, da una parte vive il lato affettivo in maniera scanzonata e dall’altra, per il suo lavoro di avvocato vede casi particolarmente dolorosi. Emblematico il ragazzo che chiede di essere riconosciuto dal padre.
Per quanto riguarda il racconto di Cristiano mi sono basata anche sulla mia esperienza di avvocato. Ho voluto analizzare la differenza tra quegli avvocati che ricercano la Verità e la Giustizia e quelli che si piegano alla finzione del tribunale per vincere un gioco personale che non vede più come finale il raggiungimento della Giustizia ma di una vittoria soggettiva. Questo è un aspetto che mi ha spaventato molto e che mi ha portato via dall’avvocatura.
Ho la fortuna di avere come punto di riferimento mia madre che, come avvocato, prende a cuore le cause e cerca sempre la Giustizia in quello che fa. Il problema si pone quando, affrontando l’avvocatura con questa mentalità, non si riesce a reggere la professione, si sta male e io ho scoperto di non avere quel temperamento.
– Il filo conduttore dei racconti si snoda in un desiderio di comprendere la Vita e l’Amore. Non ultimo il percorso interiore, il cammino iniziatico dei personaggi per poter rinascere.
Proprio per questo motivo il racconto di Nina è esplicativo rispetto agli altri perché la protagonista visita una grotta. Si tratta di un’allegoria. In questo modo anche gli altri personaggi sono entrati nel loro animo. Nina prende per mano il nipotino per proteggerlo, in realtà lui rappresenta il suo Io, la purezza e la speranza nel futuro. Quindi, il viaggio di ciascuno non è solo un viaggio dentro se stessi ma dentro le proprie maschere. Un po’ come succede a teatro, dove si dice che si è veramente sé stessi, molto di più che non nella vita vera.
– C’è un personaggio al quale sei particolarmente legata?
Sono molto legata ad Edoardo, il regista. Mi piaceva che fosse lui ad aprire e chiudere il romanzo. Sembra un personaggio sullo sfondo, in realtà è una colonna portante perché anche lui si trasforma, in qualche modo, in attore. Anche lui ha qualcosa da dire, sentimenti e speranze da confessare. Edoardo è la forza terapeutica del teatro nella quale credo molto.
Diventa una terapia quando ci si mette nei panni degli altri ma lo è anche perché, come dicevo prima, dietro la maschera sei veramente te stesso. Raccontando qualcosa che fa parte della tua vita e cercando di inquadrarlo in un genere teatrale preciso ti permette di vederlo dall’esterno in modo più chiaro. Le nostre maschere, secondo me, sono degli arricchimenti non qualcosa da eliminare. Noi siamo la maschera stessa e dentro quella maschera dobbiamo scoprire l’essenza che vogliamo trasmettere.
– Quindi siamo un insieme di sfaccettature che non avrebbe senso eliminare?
É quello che dice anche Grazia Deledda: “il male fa parte della vita come il bene basta avere la ferma volontà di volere sempre quest’ultimo con l’aiuto di Dio”. C’è anche il concetto di “Hybris”, la superbia greca, che poi viene smussato dalla vita.
– Ne “L’Ellissi” il messaggio di speranza è dato proprio dalla paziente della clinica psichiatrica.
Esatto, se l’ellissi non gira per qualsiasi problema personale, bisogna continuare a farla girare per ridarle la forma originaria e aggiungere nuovi raggi che possano darle sostegno. I raggi sono gli elementi della nostra vita. Una vita che, nel frattempo, si è spenta o ha perso vigore. Questi raggi, durante la nostra esistenza, si possono rompere per un lutto, un tradimento, la perdita dell’amore o della speranza, scelte sbagliate. Ed è giusto che si rompano perché altrimenti non potrebbero far spazio ai nuovi raggi. Dunque, la soluzione è continuare a girare e cogliere l’attimo, perché io credo che esistano sempre altre possibilità.
In questo caso la signora della clinica psichiatrica avrà il compito, in poche righe, di rivelare una filosofia di vita. Lei, così fragile e instabile, avrà in mano le chiavi per decifrare un passaggio fondamentale.
– Quindi si dicono grandi verità in momenti di follia!
Anzi, sempre Grazia Deledda (e sorride nuovamente), nel bellissimo romanzo “Il segreto dell’uomo solitario”, diceva che «spesso le malattie mentali sono malattie in cui non è vero che la coscienza si spegne, rimane come sepolta sotto le ceneri dell’organismo distrutto ma è viva e vigile e vede forse tutto più che la coscienza nostra di sani». Lo stesso Don Chisciotte nel momento in cui perde la sua follia perde la sua anima e non può fare altro che morire.
– Che peso ha avuto per te la scrittura? Hai detto che il teatro è stato terapeutico.
La scrittura è stata curativa. Avevo un malessere interiore che è stato placato. La scrittura è secondo me un’altra forma di vicinanza umana perché non è vero che gli scrittori stanno bene in solitudine; gli scrittori sono sempre circondati dai loro personaggi quindi attraverso i protagonisti che vogliono descrivere, raccontare, scoprire cercano sempre una sorta di conforto umano.
Scrittura e teatro, per me, vanno di pari passo. Così è capitato, anche in maniera del tutto involontaria, per le antologie di Grazia Deledda perché le ho sempre presentate con monologhi teatrali e attraverso il mio canale Youtube dove racconto svariati romanzi della Deledda e di altri autori in mezzora.
– Quindi, secondo te, cosa si può fare oggi per rivalutare Grazia Deledda, per farla riemergere da un ingiusto oblio?
Io, per esempio, ho sempre voluto raccontare i suoi romanzi e credo che il lettore voglia sentir raccontare una storia con un approccio un po’ diverso dal solito.
Si dovrebbe partire dai romanzi meno conosciuti, tra i più belli in assoluto, per capire che la sardità è la cornice socio-storica sulla quale si innestano le storie che racconta ma la sua sostanza è la psicologia dell’uomo, sono i tormenti di uomini e donne , che la rendono una scrittrice attuale e universale al pari dei classici.
L’uomo, nei secoli e nei millenni, non cambia mai la sua natura più profonda ma lei è andata a sviscerare proprio quella natura. Ha raccontato una realtà nel bene e nel male. Quindi, secondo me, Grazia Deledda potrebbe essere letta in qualsiasi luogo o epoca e si ritroverebbe sempre qualcosa di noi stessi.
Nel mio canale Youtube racconto una trama affinché possa incuriosire l’ascoltatore spingendolo a leggere il romanzo. Questo è il mio scopo: facilitare la scelta del romanzo da leggere, creare un desiderio di approfondimento. Ciò che ripeto sempre è che se riuscirò ad avvicinare alla lettura anche una sola persona avrò raggiunto il mio obiettivo.
– Cosa rappresenta per te Grazia Deledda?
Voglio far riscoprire questa autrice perché a me ha dato tantissimo; mi ha fatto riscoprire sotto un’altra luce e, soprattutto, mi ha fatto sentire meno sola. Non che io fossi sola. Ho i miei cari, la mia famiglia, gli amici, ma a volte, pur circondati dagli affetti, non sempre ci sentiamo capiti. Io da Grazia Deledda mi sono sentita capita e, da quel momento, ho iniziato a lavorare affinché più persone possibili potessero beneficiare di questo messaggio, di questa condizione.
– Secondo te la letteratura italiana in generale cosa non ha capito di Grazia Deledda?
Secondo me non le ha mai perdonato il fatto di aver creato un genere letterario sui generis perché lei non può essere racchiusa né nel Decadentismo né nel Verismo. Non le hanno perdonato il fatto di essersi staccata dalle regole preconcette del periodo. Era una donna, sebbene io sia convinta che le donne, in passato, avessero più opportunità di quante non ne abbiano adesso. Abbiamo tantissimi esempi di donne che hanno raggiunto il successo basandosi solo sulle loro capacità. Quindi non credo che le cose siano migliorate rispetto al passato. Le stesse quote rosa, per me, sviliscono la donna anziché valorizzarla.
In più Grazia Deledda era sarda, una provinciale con la quarta elementare, una donna che si era creata da sola, con un marito che aveva deciso di dedicarsi a lei e alla sua carriera (dimostrando in questo modo una mentalità moderna e aperta incurante dei pregiudizi). Palmiro Madesani è un marito devoto che supporta la moglie e fa decadere il concetto di maschilismo. Lui è il vero uomo che accompagna la sua donna. Tutte queste cose secondo me non potevano che infastidire l’élite letteraria italiana dell’epoca.
Grazia Deledda è la scrittrice italiana che amo di più in assoluto ed è stata anche la scrittrice più osteggiata ma più tradotta in tutto il mondo. L’unica scrittrice italiana ad aver ricevuto il Nobel per la Letteratura ma sistematicamente dimenticata dalla scuola. O, comunque, di lei viene data frettolosamente sempre la stessa immagine. Di lei vengono raccontati sempre gli stessi brani antologici che ottengono solamente un allontanamento dei ragazzi.
Ho tenuto molte lezioni su Grazia Deledda nelle scuole e il romanzo che ha trovato maggiore riscontro negli studenti è “Il segreto dell’uomo solitario”, un romanzo sulla malattia mentale. Ha suscitato così grande interesse proprio perché affronta la psiche umana e avvicina lo scrittore al lettore.
– Secondo te il trasferimento a Roma di Grazia Deledda ha influito sulla sua scrittura, sulla sua visione di “sardità”?
Secondo me no. Anzi, i Sardi non le hanno mai perdonato proprio il suo modo di raccontare la sardità senza veli, ma anche senza condanne e senza giudizi. L’ha raccontata con amore, per quello che era. E ai sardi questo non è piaciuto molto. Nel momento in cui la Deledda va a Roma riesce a vedere con occhio più acuto la sardità.
Proprio in un romanzo poco conosciuto ma bellissimo, “Nel deserto”, parla di una ragazza sarda che va a Roma abbagliata dai racconti sulla capitale ma si rende conto che anche Roma, come la terra d’origine, ha il suo deserto e che l’unica cosa che rende vivibile un deserto è l’amore. Quindi, secondo me, trasferendosi a Roma Grazia Deledda vede la sua terra e la sardità con occhi più lucidi ma anche più amorevoli.
Un amore infinito e passionale come nel romanzo “La Giustizia” dove descrive la figura del ragazzo che lascia la Sardegna per proseguire gli studi e rientra cambiato perché ha perso il contatto con la terra, con le tradizioni, la sua identità e va alla continua ricerca di se stesso sapendo di aver perso la sua parte migliore nella civiltà, nel mondo che ha visto.
Ho sperimentato sulla mia persona questo fenomeno proprio quando sono andata in Germania con mia figlia. Ero convinta che ci saremmo innamorate della Germania, invece, dopo due mesi, quando eravamo costrette a casa per il brutto tempo, ci ritrovavamo a seguire i tutorial di su pani pintau su Youtube e quando sono ritornata, per almeno due anni, ho partecipato a tutte le sagre possibili. Avevo una fame del mio mondo che dovevo assolutamente saziare. Anche la nostalgia della propria terra è feconda perché è la presa di coscienza dolorosa che permette di vedere ogni cosa in maniera più chiara.
– Vorrei ringraziarti a nome di tutti i lettori per il lavoro instancabile che fai su Grazia Deledda e per aver colto in lei degli aspetti così attuali che ci permettono di considerarla presente quasi come un’amica sulla quale contare per avere un sostegno, senza distanze, senza giudizi.
É vero e di questo ne sono felicissima. Grazia Deledda è una scrittrice che ha ancora molto da dire. Con la sua scrittura fa bene al cuore. Proprio per questo ho deciso di lasciare il mio lavoro. L’ho fatto per lei, per comunicare a tutti quanto fossero benefiche le sue pagine e per proporre soprattutto la narrazione dei romanzi meno conosciuti.
“Canne al vento”, per esempio, è il romanzo che ho amato meno. Probabilmente è il più conosciuto e studiato perché ricalca le regole del perfetto romanzo di fine ottocento; è anche quello con il messaggio più amaro. L’incapacità di prendere in mano la propria vita o di essere abbattuti da un Fato avverso sono temi presi in considerazione in altri romanzi ma affrontati in maniera diversa.
Quindi sconsiglio sempre “Canne al vento” come primo romanzo e propongo quello che è in assoluto il mio preferito: “Il paese del vento” dove Grazia Deledda parla al lettore in prima persona e affronta dal punto di vista psicologico i turbamenti di una donna in viaggio di nozze che incontra per caso il suo primo amore.
Poi consiglio “L’incendio nell’uliveto”, “La Giustizia”, “Il Dio dei viventi” e “Nostalgia” che utilizzo spesso per le rappresentazioni teatrali. Sono tutti messaggi attuali e pieni di speranza perché, per esempio, ne “Il Dio dei viventi” si parla del fatto che nonostante tutti i nostri errori Dio ci da sempre la possibilità di redimerci.
– Quindi i testi di Grazia Deledda si prestano anche al teatro?
Tantissimo! Ho realizzato 12 rappresentazioni teatrali sui suoi romanzi. Sto lavorando ad un progetto teatrale e in più organizzo laboratori di letteratura per l’università della Terza Età e per i ragazzi delle scuole. Grazia Deledda affronta temi universali e senza tempo che sarebbe bene far conoscere a tutti.
Il teatro è un ottimo strumento ma, durante la pandemia e il lockdown forzato, ho avuto modo di sperimentare anche il mondo online creando il mio canale Youtube che sta avendo un grande successo. Sono video molto curati che, grazie al mio fidanzato, videomaker professionista, ricreano alcune stanze in 3D della casa di Grazia Deledda. In questo modo anche le giovani generazioni muovono il primo passo verso una conoscenza più approfondita e già questo, per me, è un traguardo importantissimo.
In un’intervista rilasciata in occasione del Premio Nobel del 1926, Grazia Deledda disse: «Ho avuto tutte le cose che una donna può chiedere al suo destino, ma grande sopra ogni fortuna la fede nella vita e in Dio. Ho vissuto coi venti, coi boschi, colle montagne. Ho guardato per giorni, mesi ed anni il lento svolgersi delle nuvole sul cielo sardo. Ho mille e mille volte poggiato la testa ai tronchi degli alberi, alle pietre, alle rocce per ascoltare la voce delle foglie, ciò che dicevano gli uccelli, ciò che raccontava l’acqua corrente. Ho visto l’alba e il tramonto, il sorgere della luna nell’immensa solitudine delle montagne, ho ascoltato i canti, le musiche tradizionali e le fiabe e i discorsi del popolo. E così si è formata la mia arte, come una canzone, o un motivo che sgorga spontaneo dalle labbra di un poeta primitivo.»
Due donne simili, Grazia e Isabella, che vedono nella loro sardità un valore da preservare e divulgare. Che hanno capito quanto sia importante conoscere l’uomo attraverso le sue debolezze e fragilità per poi riprendere la strada che porta alla redenzione con uno sguardo alla nostra luce interiore, alla nostra “luna”.
Anche Edoardo compie il suo cammino con noi. Nel cercare di aiutare i suoi amici scopre che deve aiutare se stesso affinché l’Ellissi riprenda a girare con più vigore, con nuovi raggi, con un nuovo entusiasmo per la vita.