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Da Stintino a Milano, passando per la West Coast, intervista a Beppe Dettori
Dai pianobar a Capo Falcone all’incontro fortuito e decisivo con Fabio Concato a Milano. La telefonata straziante con Andrea Parodi e la convinzione di un fil rouge che nel folk lega tutto: la lingua. Preservarla dall’estinzione è un preciso dovere per un artista
La prima domanda che vorrei farti torna alle origini: come è maturata la tua passione per la musica? Io ricordo che nelle estati a Stintino degli anni ’80, fra una partita di calcio e l’altra, la sera ci si ritrovava a suonare sul muretto del porto e già la tua voce si distingueva fra le altre
Ho iniziato a casa ascoltando Battisti (le mie sorelle erano delle grandi fan), Bennato, Vecchioni e poi ho proseguito ascoltando canzoni con gli amici. Poi ho scoperto la musica americana, con il country e la west coast, da Crosby, Stills, Nash & Young agli Eagles e ancora Simon & Garfunkel, Bob Dylan, per poi arrivare al rock di Bruce Springsteen. Sentivo intanto crescere in me una pulsione a cantare e volevo provare a suonare uno strumento. Iniziai a suonare con un amico, Giuseppe Denegri, con il flauto dolce, ma era una situazione improponibile (risate). Mi orientai allora sulla chitarra, che, in qualche modo, mi faceva anche da “scudo” contro la timidezza e mi permetteva di non essere troppo esposto fisicamente.
Ecco, parliamo del salto da appassionato di musica a musicista. Come è iniziato questo percorso?
L’inizio è stato molto minimalista: con un mio compagno delle scuole medie, Antonio Balzano, suonavamo Smoke on the water dei Deep Purple usando una sola corda della chitarra! (risate) Più avanti, mio cognato, Nico Schiaffino, mi prestò una chitarra, ma non ebbe vita lunga, perché dopo circa un anno fu schiantata da una pallonata che la fece in mille pezzi…
Nella vita di un artista c’è sempre lo snodo fondamentale della prima esibizione in pubblico. Quale fu il tuo esordio?
Facevo l’assistente bagnante all’hotel Rocca Ruja e mi portavo la chitarra in spiaggia. Ogni tanto suonavo e cantavo e a quel punto il barman della discoteca di Capo Falcone mi propose di fare una serata in pubblico. Ero un po’ indeciso se accettare e lui insistette, dicendo: “Guarda che ti pago! Ti dò 50.000 lire!”. Sarà perché la somma, all’epoca, non era trascurabile, sarà perché in quel periodo seguivo le esibizioni dei Bag’s, bellissimi da ascoltare con il loro country, che accettai. E così ebbe inizio la mia attività dal vivo. Venivo amplificato “a crudo”, senza equalizzazione, con le casse della discoteca, dal DJ Luigi Guida.
Ricordo i Bag’s, che cito nel libro “Vintage”: era la prima vera country band a Sassari e arrivarono ad avere fino a sei elementi: Sandro Temussi e Ciccio Alia, chitarre e voci, Roberto Casula alla chitarra, Marco Pittau alle tastiere, Cesare Cuccuru alla batteria e Lanfranco Zirattu al basso. Quindi ecco che torna il country nel tuo percorso artistico. E poi?
L’anno dopo formai un duo di voci e chitarre con Fabrizio Sulliotti e facemmo la stagione al ristorante “Il Sarago” di Stintino. Anche il cachet cresceva e dalle 50.000 lire siamo passati alle 150.000 lire a testa, che era una bella sommetta. Coltivavo delle ambizioni di crescita, anche se un passo alla volta.
Però, a 22 anni, una nuova svolta e una scelta di vita: da Stintino a Milano, scommettendo tutto sulla musica.
Vero. Mi cercai una sistemazione, prima da una mia zia e poi indipendente e, per mantenermi, in attesa di una vera chance artistica, feci prima l’operaio e poi mi occupai di acquisizioni immobiliari. È a Milano che avviene l’incontro, fondamentale, con Fabio Concato.
Come andò?
Un giorno ero in un bar, lo vedo lì e mi dico: “O caspita, ma quello è Fabio Concato!”. Dopo che è andato via, ho chiesto al barista, che mi ha confermato che era lui e che veniva spesso, visto che abitava lì di fronte.
E tu?
E io, da buon immobiliarista, ho fatto come da prassi: sono uscito dal bar e gli ho bussato al citofono! Solo che non c’era scritto Concato…
Fammi indovinare. C’era scritto Piccaluga?
Sì, Piccaluga!
In effetti, è il suo vero cognome. Concato è il cognome della nonna, che era una cantante! E poi fu adottato come nome d’arte dal padre di Fabio, Gigi Concato, musicista jazz. Ma lo hai beccato lo stesso… (risate di entrambi, ndr). Cosa accadde quindi?
Lui mi risponde al citofono e io gli dico che ero un suo grande fan e che avrei voluto conoscerlo e fargli sentire le mie canzoni. Al che, lui disse: “Senti, sono le 13:30, adesso sto mangiando. Facciamo che ti chiamo io dopo”. Così andai verso l’ufficio (stavo a poche decine di metri), ma non ero appagato da questa risposta. All’epoca c’era però uno strumento, che, con buona pace della privacy, ti svelava i numeri di telefono che stavano ad un determinato indirizzo. Non ti dico come, ma risalii al suo e, un’ora dopo, lo chiamai a casa e dissi “Sono quello di prima…”
E lui?
A quel punto, si irrigidì, comprensibilmente, pensando che io fossi un molestatore, dato che non si spiegava come avessi potuto ottenere il suo indirizzo e il suo telefono privato. Mi scusai per l’invadenza e rinnovai la spiegazione sulle mie migliori intenzioni. Alla fine disse: “Senti, vengo io lì”. E ci incontrammo. Dopo avermi apostrofato con un epiteto irripetibile, fece un gran sorriso e mi disse: “Va bene, dai. Andiamo al bar e facciamo due chiacchiere”.
La frequentazione di Concato è stata fondamentale.
Per un anno mi “massacrò” i pezzi che gli portavo, su cui era molto critico, ma poi, un bel giorno, mi disse “Beppe, ora ci siamo” e mi introdusse alla EMI Publishing, la sua etichetta discografica. Lo ringrazierò sempre per questo.
Ho conosciuto Concato dopo alcune sue esibizioni a Sassari e ad Alghero: dà l’impressione di un gentleman, di persona ammodo e sensibile. Hai trovato conferma di queste caratteristiche nella frequentazione con lui?
Assolutamente sì! Una persona umile, iper-critica anche verso sé stesso, tanto che ha sempre preferito, anche nelle sue produzioni, centellinare le uscite e puntare sulla qualità più che sulla quantità. Ma proprio per questo era subito in grado di capire musicalmente cosa “funzionava” e cosa no. Il periodo di Milano è stato molto formativo e sono partito dalla gavetta, facendo cori su canzoni e sigle, compresi i cartoni animati, cantando spot pubblicitari, ambito in cui mi lanciò Lucio Fabbri, che fu entusiasta di come incidevo “alla prima” decine di jingle, su cui fin lì non aveva trovato collaboratori adeguati.
A quanto si racconta nelle biografie, anche Concato iniziò facendo i cori nei cartoni animati di UFO Robot. Una coincidenza di buon auspicio! Partendo da lì, sono poi state innumerevoli le tue collaborazioni artistiche di alto livello: Ron, Vasco Rossi, Enrico Ruggeri, Eros Ramazzotti, Gatto Panceri, Paolo Meneguzzi, Gianluca Grignani, Francesco Renga e altri ancora. Parlami di Ramazzotti, con cui, fra l’altro, hai condiviso il successo strepitoso di Domo mea, con i Tazenda. Come è nato il contatto?
L’ho conosciuto nel 1990 in una circostanza singolare. Ero a Milano, con il cantautore Leandro, in arte Soleandro, che doveva suonare al compleanno di quello che faceva le copertine ai dischi di Ramazzotti. Leandro cercava di convincermi a suonare con lui, ma io ero perplesso, perché il personaggio “Ramazzotti” non mi stava particolarmente simpatico. Poi il collega la mise sul piano della “puntiglia”, come si dice dalle nostre parti e mi disse: “Dobbiamo fargli vedere come si canta a questo”. E mi convinse così. Alla festa, in un locale “in” chiamato “Il Grillo Parlante” in effetti c’era anche Ramazzotti e, a poco a poco, arrivava il jet set e vari artisti, fra cui ricordo Alex Baroni. C’erano varie persone che suonavano, ma la serata non decollava. Ad un certo punto io e Soleandro cantiamo Stand by me: solo voci, niente strumenti. Da lì Eros, gasatissimo, ha iniziato a duettare e la serata è partita a mille: si avvicinavano altri artisti, portavano i loro strumenti e via, una colossale jam session di due ore. Ramazzotti voleva subito portarci con lui a suonare ad un concerto a Barcellona: non se ne fece niente, ma rimanemmo in contatto.
Altre figure che vuoi ricordare di quel periodo artistico?
Sicuramente Ron, che mi fece fare i cori sulla canzone Le foglie e il vento, ma anche Vasco Rossi, su cui voglio sfatare alcuni pregiudizi: innanzitutto, con noi fu una persona garbata e umile e, mentre registravamo i cori di Siamo solo noi nel suo studio, ci chiese perfino il permesso di restare lì ad ascoltare. Poi andò via, ma prima ci disse: “Ragazzi, siete forti!”. E poi, quando cantava lui, cantava: non è assolutamente vero quello che taluni sostengono, che sia stonato. E’ intonato ed è un grande professionista. Fra il 2000 e il 2006, infine, fui molto attivo come compositore, cosa che era il mio sogno: si scrivevano pezzi per figure del calibro di Andrea Bocelli e perfino un produttore pluristellato come David Foster, che ha prodotto le migliori star statunitensi, notò i miei lavori e volle un mio pezzo. Ormai, come compositore collaboravo con artisti che vendevano milioni di copie di dischi. Mi sentivo davvero realizzato.
Da Milano, di nuovo in Sardegna: nel 2006 inizia la collaborazione con i Tazenda. Come si arriva a questo passaggio?
In quel periodo collaboravo con Gianluca Grignani e mi arriva una telefonata di Andrea Parodi. Da un lato mi disse che a fare il corista di Grignani ero sprecato e dall’altra mi fece capire che avrebbe avuto molto piacere che io raccogliessi il suo testimone, visto che era consapevole di avere un orizzonte di vita ormai breve. Fu una telefonata straziante, per molti versi. Da allora prese inizio la collaborazione con i Tazenda. Va detto che facevamo tanti concerti, ma il genere musicale che avevamo scelto ci aveva chiuso molte porte fra le case discografiche. Ma ecco che, inaspettatamente, si rifà vivo Eros Ramazzotti e, venendo a sapere che eravamo senza contratti discografici, mi dice: “Ma come siete senza contratto? Vi voglio io!”. Passano 5 minuti e mi chiama il suo socio, Galanti e si fa mandare i nostri materiali. Fra questi c’era Domo mea, che lo fa esaltare. Si ipotizzava una collaborazione con Giorgia o Antonella Ruggero al canto, ma quando Eros la ha sentita, ha preteso di cantarla lui con noi e non ha voluto sentire ragioni quando qualcuno, nella sua produzione, cercò di dissuaderlo.
Un pezzo favoloso, in effetti. Da tutto questo, poi viene fuori un ritratto di Ramazzotti un po’ diverso da quello che alcune cronache raccontano, come personaggio difficile.
È anche questa una leggenda da sfatare: Eros a volte è irascibile, ma tiene molto ai rapporti umani e anche questa vicenda lo ha dimostrato.
Poi l’avventura con i Tazenda è terminata un po’ burrascosamente e la polemica è diventata pubblica, visto che circolava una tua “lettera aperta”, con cui esprimevi rincrescimento per le modalità di conclusione di questa esperienza.
In realtà quella era una comunicazione privata, che non avrebbe dovuto finire in pubblico… Ma poi ci siamo chiariti e i rapporti si sono distesi subito dopo.
Andiamo verso la conclusione di questa intervista. Parliamo del tuo genere etnico e delle contaminazioni crossover dei tuoi ulteriori progetti, a partire da Dolmen del 2011. Come nasce questo tuo legame con la più antica tradizione musicale isolana e l’interesse per i suoni della natura, come la mesu ‘oghe, che riporta il belato delle greggi?
In effetti, questo percorso, che era un mio obiettivo molto forte, nasce con la mia passione per i “mantra”. Ho sentito per la prima volta dei canti tradizionali giapponesi che riproducevano i suoni dell’ambiente naturale e poi ho approfondito questo tema, studiando Demetrio Stratos, i canti popolari della Mongolia e del Tibet. Pensa che la Mongolia, in linea d’aria, è lontana dalla Sardegna ben 7.198 Km., eppure ci sono grandi affinità nelle sonorità musicali. Io credo fermamente che sia un’esigenza dell’uomo quella di connettersi con gli elementi della natura, del mondo animale. Lo stesso ballo tondo è un rito iniziatico che simula la bonifica del terreno in prospettiva delle nuove colture. E’ una simbologia ben precisa.
Spiegami come origina questa sensibilità musicale, così legata alle radici e, se vogliamo, all’entroterra dell’Isola, in una persona che, in realtà, nasce in un borgo marinaro come Stintino, quindi al di fuori di questo mood. E poi ti lancio una provocazione: non è che noi sardi rischiamo di rimanere ingabbiati in questa immagine etnica, sebbene ci abbia creato dei nuovi mercati? In altre parole, dove finisce l’etnico e dove inizia il folklore?
Bella domanda questa. Sul primo aspetto, ti dico intanto che mio padre era di Bonorva e fu lui a farmi conoscere il “canto in re” e i “muttos”, quindi queste influenze non erano così lontane da me. Sul secondo tema, voglio ricordare il percorso che scelse Maria Carta dal 1980 in poi, dismettendo i suoi due chitarristi folk e adottando un set moderno, con una strumentazione e una band quasi rock. Aveva capito che il folk rischia di diventare una gabbia e, se vuoi avvicinare i giovani a questo genere, devi rinnovare il modo di interpretarlo. È su questa linea che io e Raoul Moretti abbiamo iniziato a sperimentare sulla tradizione. Il fil rouge che lega tutto è la lingua: preservare la lingua sarda dall’estinzione è un nostro preciso dovere, anche come artisti. E tieni presente che, oltre al sardo, occorrerebbe riabilitare anche il sassarese, come veicolo di testi di spessore, superando i soliti stereotipi.
In quali progetti ti vedi proiettato nel futuro?
Penso di muovermi su due binari principali. Da un lato, voglio continuare la ricerca di una world music, un genere trasversale, che attualmente si svolge su un dialogo fra corde, come avviene fra le mie corde vocali e quelle dell’arpa di Raoul: è il tema su cui si basa anche il nuovo progetto dell’album Animas, che si avvale di numerose collaborazioni artistiche e di cui è uscita un’anteprima con il singolo Sardus Pater. D’altro lato, vorrei poi sviluppare il raccordo fra la canzone popolare e la canzone d’autore, su cui ci sono stati grandi esempi in passato, da De Andrè a Davide Van Der Sfroos, ai Pitura Freska e altri ancora.
Penultima domanda: come vedi il futuro della musica in generale? La digitalizzazione delle registrazioni e dei supporti in che direzione conduce?
Il futuro dell’ascolto è nello streaming e i supporti come il CD andranno a scomparire, come a suo tempo è scomparso il vinile, salvo momentanei ritorni. Fra l’altro, cosa che non tutti sanno, esistono dei meccanismi precisi per redistribuire gli utili anche agli artisti ascoltati in streaming, che si vedono pagare le royalties da una piattaforma in base agli ascolti e alle visualizzazioni ottenute.
Questo però spazza via la figura dell’album, inteso come progetto concettuale, e orienta l’ascoltatore solo verso il singolo, la canzone “one shot”, a volte diluita in compilation casuali, in stile Spotify.
È così. Ma questo è il futuro. Considera, comunque, che saranno sempre più importanti i concerti dal vivo, anche come fonte di remunerazione dell’artista. Più salgono gli ascolti in streaming, più alto sarà il cachet.
Per concludere, Beppe, anzi, Giuseppe, perché così ti ho conosciuto 40 anni fa e Beppe è un nickname nato a Milano…
Vero… (sorride)
Dicevo: Cosa è rimasto di quel ragazzo che giocava a pallone e cantava sul muretto del porto di Stintino?
Tutto. È rimasto tutto. L’ingenuità, la visione, la speranza e anche, a volte, l’incertezza. E spero che queste cose non vengano mai meno, perché fanno di me quello che sono.