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Da Sant’Antioco a Cleveland e ritorno: il bronzetto dell’arciere ritrovato
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La Sardegna, come tutta l’Italia, è ricca di siti archeologici. Eredità che si trovano spesso in zone impervie rese quasi impraticabili dalla macchia mediterranea che si riprende l’area dopo decenni di incuria e abbandono. Ed è grazie a questo quadro impietoso che per anni si assistette ad un saccheggio quasi indisturbato. Roberto Lai, ex carabiniere, ci racconta la sua storia
Un incidente stradale, una valigetta piena di soldi, una polaroid sbiadita dal tempo.
Sembrano tutti ingredienti per la trama di film, ma sono gli elementi che hanno permesso di mettere a fuoco un traffico illegale di beni archeologici che dalla Sardegna venivano scavati e trafugati verso le grandi collezioni internazionali.
Questa è la storia di un bronzetto nuragico trafugato, ritrovato e riportato a casa: l’arciere di Sant’Antioco.
Il primo tassello – Tutto ebbe inizio da un incidente stradale nei primi anni ’80 sulla statale 131.
L’auto era guidata da Pietro Mocci detto il Nibbio, il più noto ricettatore specializzato nel traffico di bronzetti sardi, che morì sul colpo.
Nel veicolo vennero ritrovate una valigetta con all’interno 100 milioni di vecchie lire (circa 52mila euro odierni), per cui scaturì l’ipotesi che i soldi fossero il provento di una vendita fruttuosa, e un’agenda che riportava nomi, indirizzi e aree di competenza di diversi personaggi legati al mondo degli scavi clandestini fa cui tombaroli locali e trafficanti internazionali.
«Nell’agenda trovata nell’auto del Nibbio, dove c’erano tutta una serie di informazioni, indicazioni e indirizzi ma l’indirizzo proprio “chiave” era quello che portava da un trafficante in Svizzera.»
Il Luogotenente Roberto Lai, carabiniere del Nucleo Operativo Tutela Patrimonio racconta che la Svizzera era un punto importante perché è da lì che prende il via alla volta dell’estero un gran numero di merce dagli scavi clandestini. Ed è stato anche grazie agli indizi contenuti in quell’agenda che si è potuto individuare il filo relativo al bronzetto dell’arciere nella rete intricata del traffico illegale di beni archeologici.
Ma bisognerà aspettare ulteriori indagini investigative dovuti ad inaspettati sviluppi legati ad altre inchieste prima di poter sbrogliare la matassa.
La svolta – Nel 1995 un altro incidente stradale segnò la svolta: muore un ex capitano della Guardia di Finanza, Pasquale Camera, che perse il controllo della sua auto lungo l’Autostrada del Sole (A1). Camera era coinvolto nel traffico di antichità tanto che nella sua auto trovarono diverse foto di reperti archeologici e, fra queste, un foglio manoscritto con un organigramma dettagliato che tracciava le tappe del mercato illecito.
Fra i nomi italiani, spuntò lo stesso nome riferito, alla Svizzera, presente nell’agenda del Nibbio.
Partì così un sopralluogo da parte Nucleo per la Tutela del Patrimonio in collaborazione con le forze dell’ordine del territorio svizzero. L’obiettivo è un famoso mercante e trafficante d’antichità che operava a Basilea dove era proprietario di una galleria d’arte.
In quell’occasione vennero sequestrati oltre 5mila reperti archeologici e un archivio composto da 120 faldoni pieni di polaroid e documenti riguardanti migliaia di opere procurate dai suoi “fornitori” dell’Italia meridionale, l’area di sua competenza.
Il traffico – Il sistema di questi traffici è spesso di tipo piramidale: gruppi o singoli scavatori stanno alla base dell’organizzazione, questi svendono la merce rinvenuta ad un intermediario regionale (in questo caso il Nibbio e, dopo la sua morte, Mario Deidda) che a sua volta vende al trafficante internazionale.
I reperti una volta giunti in Svizzera, venivano venduti e ricomprati da società riconducibili allo stesso mercante (o ai suoi collaboratori) attraverso prestigiose case d’asta internazionali anche tramite la propria galleria d’arte.
Questa continua attività di compravendita aveva il compito non solo di “ripulire” i reperti dalla loro provenienza illecita grazie alla documentazione che veniva emessa e presentata ad ogni vendita/acquisto, ma permetteva anche di fissare un prezzo di riferimento nel mercato internazionale allo scopo di venderli ai grandi musei internazionali o collezionisti privati per cifre astronomiche.
(Per dare un’idea di quanto rendeva bene la vendita di bronzetti nuragici basti pensare a ciò che racconta Fabio Isman nel libro “I predatori dell’arte perduta”: nel 1990 Il trafficante svizzero cedette alla Merrin Gallery di New York 32 bronzetti nuragici (fra cui animali, sacerdotesse, guerrieri e navicelle) databili dal IX al VI secolo a.C. per 8 miliardi di vecchie lire (400mila euro odierni circa). Ma non serve tornare troppo indietro nel tempo: nel 2014 da Christie’s un bronzetto raffigurante un sacerdote orante con mantello venne battuto all’aste per 125mila dollari.)
Il ritrovamento – Nei mesi successivi, passando al vaglio tutti i volumi sequestrati, una polaroid in particolare attirò l’attenzione del titolare dell’indagine, il Luogotenente Roberto Lai: era la foto di una statuetta di bronzo alta circa 22 cm, in una posa orante, con la terra che ancora avvolgeva la figura, fotografata da tre diverse prospettive. Aveva in spalla un grosso arco, indossava un corpetto corazzato e sul capo portava un elmo con due lunghe corna protese verso l’alto.
Attaccato alla polaroid c’era un biglietto: “Grutt’e Acqua, Sant’Antioco”.
Era un bronzetto nuragico, forgiato nell’isola Plumbaria circa tremila anni fa.
Grutt’e Acqua è il nome del complesso nuragico che si trova nell’isola di Sant’Antioco e, manco a farlo apposta, è anche il paese d’origine del Luogotenente Lai.
«Quando ho individuato la foto, quasi mi è preso un colpo: in tanti anni che lavoravo nella Tutela del Patrimonio Culturale, trovare qualcosa proprio del mio paese mi ha subito elettrizzato!»
Ora c’era un collegamento oggettivo della presenza di un sistema organizzato di traffici e tutti gli indizi raccolti nel corso degli anni, fra cui l’agenda del Nibbio, urlavano forte. E grazie al ritrovamento del biglietto sulla polaroid, c’era anche un esplicito riferimento alla sua località di provenienza.
«E un altro fatto – continua Lai – è che il trafficante internazionale aveva vissuto fra Carbonia e Sant’Antioco per diversi anni. Quindi tutto combaciava.»
Non c’è più dubbio, questa era la prova che veniva da uno scavo illecito.
Ma c’era un problema: quel bronzetto non si trovava, non era presente nei depositi sequestrati, non c’era più.
« Allora iniziai personalmente una serie di attività di monitoraggio capillare dei cataloghi di tutte le case d’asta, di collezioni museali, qualsiasi pubblicazione che all’epoca, con la diffusione di internet, era possibile reperire. Purtroppo, era come cercare un ago in un pagliaio – prosegue Roberto Lai – e trovare un riscontro oggettivo non era assolutamente facile! Ma una notte, lavorando da casa e dopo mesi di incessanti ricerche, sono entrato nel sito di un museo americano… ed eccolo lì.»
Finalmente la svolta: il bronzetto dell’arciere nuragico viene rintracciato all’interno del Cleveland Museum of Art, in Ohio, dove era diventato anche il logo della sezione dedicata ai bronzi antichi.
Grazie al bollettino delle acquisizioni del 1991, si è riusciti a risalire al fatto che si trattava proprio di quello stesso bronzetto, quindi, presero il via tutte le attività necessarie per il suo rimpatrio.
Dalle rogatorie internazionali con le autorità statunitensi, si scoprì che l’arciere faceva parte della collezione del museo americano già dalla fine degli anni ’60.
I fatti erano i seguenti: il bronzetto era stato scavato clandestinamente ed esportato illegalmente dalla Sardegna ed era stato acquistato in totale buona fede dal museo.
Nonostante ciò, era comunque stato acquisito attraverso delle fasi irregolari in quanto frutto di scavo clandestino, quindi l’Italia ne richiedeva giustamente la restituzione come prevede la legge.
Ma il Cleveland Museum opponeva resistenza forte del fatto che essendo stato acquisito in buona fede e quasi 40 anni prima, tutti i termini per la restituzione erano ormai prescritti.
Il rientro in Sardegna – Nel 2009, dopo anni di diatribe e contrattazioni, facendo pressioni al Direttore del Cleveland Museum e coinvolgendo l’Avvocatura Generale dello Stato, si trovò un accordo per via diplomatica e finalmente si avviarono le pratiche per la restituzione
C’erano però due condizioni da rispettare: il bronzo sarebbe dovuto essere esposto nell’esatto luogo dal quale fu prelevato, cioè a Sant’Antioco, e il Museo voleva ricevere in prestito dal Ministero dei Beni culturali un numero di opere di pari numero e valore a quelle restituite.
Infatti, oltre all’arciere nuragico, vennero resi all’Italia altri 13 reperti provenienti dal mercato clandestino, fra cui preziose ceramiche apule ed etrusche.
Oggi l’arciere nuragico si trova esposto nel museo archeologico “Ferruccio Barreca” di Sant’Antioco, dove è stato accolto con tutti gli onori insieme al Luogotenente Roberto Lai.
«A rendere speciale questo bronzetto c’è il fatto che si avevano tutti i riscontri tali per cui si conosceva esattamente la provenienza dell’oggetto, ossia il luogo esatto dal quale fu scavato e trafugato. Questo ha permesso di ha permesso non solo di dare una disposizione precisa sulla destinazione del reperto ma anche di farlo tornare dove la storia lo aveva collocato.»