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3 aprile 2000: la pagina nera della polizia penitenziaria/16
Il 3 aprile del 2000 nel carcere di San Sebastiano viene scritta la pagina più nera e infamante della storia della polizia penitenziaria. Decine di detenuti fatti uscire dalle loro celle e picchiati selvaggiamente. Gli agenti erano affiancati da colleghi giunti da diverse strutture dell’isola e dagli uomini del Gom, reparto speciale della polizia penitenziaria addestrato per neutralizzare le rivolte in carcere. La loro missione era punire i reclusi in modo esemplare per i danni causati durante le proteste dei giorni precedenti organizzate per richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica sulle loro condizioni di vita all’interno di un carcere disumano.
Ospiti d’onore di un pomeriggio d’orrore, il responsabile del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria della Sardegna, Giuseppe Della Vecchia, e la direttrice del carcere di Sassari, Cristina Di Marzio. Le direttive alle guardie erano già state impartite. A farle rispettare era il nuovo comandante delle guardie, Ettore Tomassi, che avrebbe dovuto prendere servizio il giorno dopo ma che venne incaricato dal dirigente del Dap di presiedere le operazioni. “Chi comandava tutti era un uomo che indossava un impermeabile bianco e ci insultava” diranno alcuni detenuti indicandolo ai giudici che li interrogavano. Ventuno riportarono ferite giudicate guaribili fra i 15 e i 60 giorni, alcuni traumi e danni permanenti.
Del pestaggio si venne a sapere grazie ad uno dei detenuti feriti, frettolosamente fatto salire su un pullman dell’amministrazione con altri reclusi e trasferiti in altre strutture penitenziarie dell’isola. In questo caso il carcere di destinazione era quello di Oristano. In una lettera avventurosamente fatta pervenire ai familiari il giovane raccontò delle violenze subite manifestando preoccupazione per la sua vita. La lettera venne consegnata dalla madre negli uffici della Procura della Repubblica. La reazione dei magistrati Gianni Caria e Mariano Brianda fu immediata. Incaricarono il medico legale Francesco Lubinu di visitare i detenuti feriti trasferiti nelle varie carceri.
Il professionista fece un lavoro certosino: sottopose i reclusi oggetto delle violenze a tutti i controlli sanitari e radiologici per certificare le loro condizioni di salute e per ciascuno stilò un referto dettagliatissimo accompagnato da numerose fotografie. Già dai primi passi dell’inchiesta vennero fuori cose atroci, indegne di un paese civile. Dalle testimonianze emersero i particolari del pestaggio. I detenuti ritenuti i fomentatori della rivolta vennero prelevati dalle loro celle, costretti a denudarsi e a sfilare tra due file di agenti decisi a impartirgli una lezione indimenticabile. Tutto sotto gli occhi di chi in carcere e nell’amministrazione penitenziaria aveva tra i suoi compiti quello di garantire i diritti dei detenuti. Nell’inchiesta entrò anche il medico del carcere di San Sebastiano, Antonio Salvatore Adamo, responsabile di aver autorizzato il trasferimento dei detenuti feriti omettendo di segnalare le loro condizioni fisiche. Un comportamento perseguibile penalmente, come è avvenuto, e censurabile sul piano della deontologia professionale.
A un mese dai fatti, il gip Mariano Brianda, su richiesta del procuratore capo Giuseppe Porqueddu e del sostituto Gianni Caria, firmò 82 ordinanze di custodia cautelare. Un fatto unico in Italia. 21 tra dirigenti e guardie finirono in carcere, 59 agli arresti domiciliari. Ci resteranno dieci giorni. Ma non era un passo indietro dell’accusa. Semplicemente, conclusi gli interrogatori, era venuta meno la ragione fondamentale degli arresti: il pericolo di inquinamento delle prove. L’ipotesi avanzata dalla procura di Sassari non solo è rimasta in piedi ma dalle 35 pagine dell’ordinanza di custodia cautelare che spiegava i motivi delle scarcerazioni sono emerse anche importanti conferme sulle responsabilità dal dirigente del Dap, Giuseppe Della Vecchia, dalla direttrice del carcere Maria Cristina Di Marzio e dal capo delle guardie, Ettore Tomassi.
I magistrati, sulla base dell’assoluta concordanza delle dichiarazioni dei detenuti seviziati e delle perizie redatte dal medico legale Francesco Lubinu non hanno mai avuto dubbi sul fatto che il 3 aprile del 2000 all’interno del carcere di San Sebastiano era avvenuto un massacro e che a compierlo, su disposizione dei loro superiori, era stato un commando di 72 agenti provenienti in gran parte da varie carceri dell’isola. Il processo a carico degli imputati si concluse a nove anni dagli episodi di violenza. Due agenti furono assolti per non aver commesso il fatto, altri sette, che per l’accusa meritavano di essere condannati, se la cavarono perché dopo tanto tempo i reati da loro commessi erano caduti in prescrizione. Nella sentenza la Corte ha precisato che «la legalità ha ceduto il passo alle manifestazioni di istinti, di rancori repressi, di spirito di rivalsa, di volontà di mostrare la propria durezza al nuovo comandante».
A conclusione della mega inchiesta restarono solo le condanne inflitte al capo delle guardie Tomassi, l’uomo cui venne attribuita la frase di saluto ai detenuti: “Salve ragazzi, sono il vostro Dio. Ora vi rompo le costole”. Quindi il provveditore regionale del Dap, Della Vecchia, l’ex direttrice del carcere di Sassari, Di Marzio, e otto agenti della polizia penitenziaria. In nove anni di iter giudiziario lungo e complesso caddero reati, altri vennero prescritti, così che gli 82 colpiti da ordinanze di custodia cautelare si ridussero a 9 detratti i due agenti assolti in sede di giudizio per non aver commesso il fatto.
La vicenda giudiziaria ebbe poi una coda davanti alla Corte europea dei diritti umani di Strasburgo. Esaminato l’esposto presentato da uno dei detenuti picchiati, Valentino Saba, quattordici anni dopo i fatti ha condannato lo Stato italiano al pagamento di 15 mila euro per “danni morali derivati da un trattamento inumano e degradante”. Lui ne aveva chiesti 100mila. Inoltre i giudici hanno stigmatizzato nella sentenza i tempi lunghi del processo, il fatto che molti colpevoli fossero stati prosciolti per prescrizione dei reati commessi e i casi di chi, seppur condannato, “aveva ricevuto pene troppo lievi in rapporto ai fatti per cui era stato incriminato”. In proposito la Corte ha citato l’esempio di uno degli agenti che non aveva denunciato le violenze commesse dai suoi colleghi, di cui era stato testimone, reato per il quale venne condannato ad appena 100 euro di multa. Altra sottolineatura negativa infine per aver sospeso la condanna al carcere per altri agenti della polizia penitenziaria.
I fatti di Sassari, uno scandalo a livello nazionale, hanno accelerato le procedure di dismissione del carcere di San Sebastiano che è stato chiuso nel luglio del 2013. Pochi giorni dopo è stata inaugurata la nuova struttura penitenziaria costruita vicino alla borgata di Bancali, a qualche chilometri da Sassari, in aperta campagna.