Capodanno, Di Nolfo: “Alghero al Centro della pianificazione regionale”
Salvatore Niffoi, la parola alle parole
© riproduzione riservata
È magnetico ed irruento Salvatore Niffoi, con voce suadente e musicale cattura e seduce. Sceglie con implacabile precisione le parole e ti ritrovi in un mondo che scopri universale e sorprendentemente avvolgente
“Il mio trisavolo era narratore, con un carro girava di piazza in piazza i paesi della Barbagia. Usava la parola per raccontare. Affascinava grandi e piccoli con le sue storie. Tutti, seduti su piccoli e comodi scranni, assistevano incantati al dipanarsi delle vicende che sapeva evocare. Poi sono arrivati i giornali ed hanno fagocitato la poesia e la magia di una letteratura che si tramandava oralmente. Il televisore, a sua volta, ha inghiottito i giornali. La rete, con la sua bulimica ingordigia, ha mangiato giornali e televisione. Ci hanno tolto il piacere di sniffare il profumo di un buon libro. Credo, e fermamente sostengo, che alla lunga questa guerra sarà vinta dalla carta. L’uomo dovrà tornare a guardarsi, parlarsi, toccarsi, incontrarsi e non cedere passivamente alla rete. Ci sarà di nuovo la rivincita del locale e quel sano e doloroso piacere della lettura per scoprirsi e conoscersi”.
Una caratteristica di tutti i tuoi romanzi è che sono spesso intrisi di sangue e carne, di vita e di morte, di gesta, di storie che val la pena assaggiare, masticare e metabolizzare.
I libri devono essere commestibili; lo scrivere è un atto d’amore. Come lo è cucinare e mangiare. Io amo molto cucinare, condividere il cibo, amalgamare gli ingredienti, le spezie, le erbe del mio orto che coltivo, oserei dire epicamente, con le mie stesse mani. Ecco, le mie storie sono materiche, perché sono impastate di luce, di colore, della parola che ha il potere di evocare e sorprendere. Quando creo i miei personaggi vivo con loro, piango, rido, gioisco e mi dispero, partecipo alla loro vita. Se non provi emozione quando scrivi, come la puoi trasmettere a chi ti legge? I protagonisti delle mie narrazioni sono anime vive; nascono, vivono e muoiono in pace o anche violentemente, come la vita che ci circonda. La morte è ovvia e mi piace esplorarla e raccontarla così com’è. È parte integrante della vita. Ho un ricordo ben impresso nella memoria quando a soli quattro anni vidi su di un carro un vicino decapitato.
È prassi andare a trovare i morti a casa e parlare di loro con parenti e i vicini: un modo per esorcizzare la morte ed accettarla. La morte bisogna aspettarla con serenità.
Le donne sono una forte presenza nei tuoi romanzi. Alcune sono addirittura nel titolo dei tuoi libri, La Vedova Scalza – premio Campiello 2006 -, La leggenda di Redenta Tiria. È vero o è un luogo comune che la Sardegna è fondata su di una civiltà matriarcale?
Le mie donne parlano poco e fanno molto. Donne potenti che dalla disperazione traggono linfa per la vita. Sono come l’architrave di un nuraghe. Se vuoi che un nuraghe si disintegri devi smantellare l’architrave e quella magnifica costruzione sarà solo un ammasso informe di ciclopici massi. Le figure femminili nei miei libri sono come la luce nei quadri del Caravaggio, indispensabile. Hanno reminiscenze deleddiane, affondano radici nella società agropastorale, sono la pietra d’inciampo nella storia e nella vita dell’isola. Ho la fortuna di avere poche e selezionate amicizie maschili, mentre tante e belle sono quelle femminili, forse le sorelle che non ho avuto. I maschi, e la società in generale, sono superficiali, non hanno la profondità del sentire femminile. Le certezze sono degli imbecilli e non del genere umano. Ho la fortuna o forse il destino di stare con una donna da 45 anni, mia moglie. La vidi per la prima volta alla festa del matrimonio di un mio caro amico; obnubilato dai fumi dei bagordi la scorsi da lontano e subito realizzai che fosse speciale, la donna della mia vita; condividiamo tutto, soprattutto la lettura. Mi auguro di morire con lei sommerso dai libri e non dalla merda che ci circonda.
L’ultimo tuo libro Il cieco di Ortakos, pubblicato a fine marzo con la Giunti Editore, ha un incipit estremamente invitante: Io sono preciso a quel burdazzo di mio padre, abbiamo anche lo stesso colore oltremare degli occhi, solo che il mare io non l’ho mai visto, perché sono cieco dalla nascita. Il mio nome è Damianu, Damianu Isperanzosu, su mastru tzecu de Ortakos.
È l’amicizia con Bachisio che mi ha dato l’input. Lui e i suoi amici non vedenti con la loro ipersensibilità convivono con il buio con caparbietà ed eleganza, non si sporcano quando mangiano, abitano con naturalezza la casa, accendono il gas, si fanno il caffè. Si innamorano e fanno all’amore. I ciechi sono persone eccezionali e ci danno lezioni di vita. L’inabilità è in chi la vede e non in chi ce l’ha. Il cieco ama anche ciò che non vede, mentre noi non apprezziamo quello che vediamo. Avevo capito che nessuno ama la vita quanto un non vedente, che la odia. Intrufolarmi in questi meandri e riuscire a raccontare con consapevolezza che la vita è un miracolo e va vissuta, è stata una magia.